Lettera al Direttore
Dal finestrino il paesaggio corre veloce, troppo perché sia possibile fermarvi lo sguardo. Intorno una varia umanità a capo basso sui computer portatili, concentrata su grafici e numeri o parlottante ai cellulari. In alto schermi che informano sulla velocità di viaggio e riproducono pianure fiorite, tra cui avanzano fiammanti Frecce rosse. A tratti pubblicità gastronomica: oltre ai passeggeri ad Alta Velocità, questo supertreno sforna anche le “specialità gastronomiche italiane” a chi abbia voglia di raggiungere il ristorante viaggiante per un “esclusivo” Servizio Executive.
Sono, con tutto il mio armamentario di zainetto, spille, felpa, bandiera NO TAV, sul Freccia Rossa Torino-Roma. Me ne vergogno, ma non c’è alternativa: aboliti gli Intercity che percorrevano, con un’ora di viaggio in più e a metà prezzo, la dorsale tirrenica, non resta che adattarsi tristemente al TAV (naturalmente per chi possa sborsare 180 euro, altrimenti, “ti attacchi al treno”).
Lasciato alle spalle il verde tenero delle risaie vercellesi, spaccate in due dal corridoio TAV-autostrada, il treno si avventa su Milano, unica fermata intermedia; di qui la corsa proseguirà ininterrotta, tramite i passanti ferroviari di Bologna e di Firenze, fino a Roma.
Ecco la zona del Modenese; qui venimmo nella seconda metà degli anni ’90 per una manifestazione che credevamo “NO TAV” e scoprimmo essere “Come TAV”: il dilemma era infatti se passare sui quartieri cittadini, oppure in aperta campagna. In realtà, nulla si è salvato: la linea, collegata da un reticolo di infrastrutture alla periferia cittadina, corre in campagna, sopra cascine prese in mezzo tra TAV e autostrada, come in un polveroso carcere.
Dopo Bologna, il treno entra in galleria, lungo un percorso assordante e buio. Fuori scorre il Mugello, violentato, assetato, con i corsi d’acqua inquinati dai fanghi dei cantieri e i boschi sventrati dalle ruspe. Dopo Firenze fuggono uliveti, antichi borghi, gole ombrose con brevi radure; poi le forre e le zone umide della Maremma. Per larghi tratti la linea TAV è fiancheggiata dalla linea tradizionale: l’una su un impattante rilevato, l’altra mascherata da alberi, fiancheggiata da piccole stazioni; l’una aggressiva, l’altra quasi in abbandono.
Il paesaggio verso Roma si fa dolcissimo: case coloniche, orti, uliveti, piccoli ovili, greggi, agnelli appena nati, qualche asinello; la primavera fiorita di ginestre. Mi chiedo che cosa significhi per quel mondo questo treno che corre veloce, questa linea che taglia in due la pianura come una coltellata; e che cosa comunichino quelle fuggevoli apparizioni ai viaggiatori superveloci, intenti a pigiare sui tasti del computer o a consultare inquieti l’orologio (sarà anche “ad alta velocità”, ma ha già accumulato un ritardo di almeno venti minuti).
Arriviamo a Roma Termini intasata di viaggiatori. I tabelloni segnano arrivi e partenze: i treni pendolari tutti in ritardo, qualcuno soppresso.
E’ la storia ormai incancrenita delle Ferrovie statali ridotte a Società per Azioni, secondo l’imperativo delle privatizzazioni portato avanti dal piano Necci una ventina di anni fa. Per un servizio ferroviario non più a valenza sociale, ma ridotto a strumento di lucro, 16 mila chilometri di rete erano “antieconomici”: si iniziò così la potatura di 11 mila chilometri (le linee locali, le corse pendolari) mentre si prevedeva il potenziamento (nuove infrastrutture, pesanti disastri economici e ambientali, lauti profitti per le lobby del tondino e del cemento) dei restanti 5 mila, definiti “compatibili con l’Alta Velocità”. Fu quel famigerato piano a chiudere poli , officine ferroviarie, stazioni; allora vennero cancellati gli abbonamenti ridotti per studenti e lavoratori, privatizzati i contratti di lavoro e decretato l’abbandono per i due terzi della rete ferroviaria italiana tuttora a binario unico e non elettrificata.
Un sistema ferroviario Italia in perfetta sintonia con i “corridoi di traffico” dell’Europa di Maastricht, in nome di una libera circolazione garantita ai capitali e alle merci, ma più che mai negata alle persone.
Tutto ciò non è una fatalità: lo sa bene la Valle di Susa che lotta contro il TAV e il modello di vita e di sviluppo fondato sulla guerra all’uomo e alla natura; e, insieme, contro un lavoro che distrugge e uccide.
Non esiste via di mezzo per l’Italia, L’Europa, il mondo: o il sistema del capitale, quello delle multinazionali, della guerra tra poveri, della devastazione ambientale, della repressione nei confronti delle lotte che rivendicano dignità e uguaglianza; o il vento liberatore che porta il conflitto sociale fino al centro del potere, in nome di un futuro più giusto e vivibile per tutti.
Non è questo un sogno vano, ma utopia realizzabile la stessa che rende invincibile la resistenza del popolo valsusino e si fa azione collettiva, capace di abbattere l’indifferenza e di rigenerare, con forza e tenerezza, l’antica alleanza fra uomini e con la natura.
Mentre mi avvio al corteo contro la repressione e respiro per le vie di Roma una primavera insieme povera e sontuosa, ripenso alle parole di Rosa Luxemburg, in una lettera dal carcere dove scontava la sua irriducibile opposizione alla guerra:
Rimanere un essere umano è la cosa principale. E questo vuol dire rimanere saldi e chiari e sereni, sì sereni malgrado tutto. Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita sulla grande bilancia del destino, quando si deve farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola”.