La cella dove ora vivo è rivolta ad oriente.
Vedo alzarsi un’alba tutta rossa, annuncio di una giornata di sole e
cieli chiari. Il cielo, a poco a poco, trascolora in una luce che
cresce, si fa gialla e poi di un tenero candore che, nel freddo di
gennaio, sa già di primavera. Penso all’ombra fitta degli alti cedri
di casa mia. Il mattino si impiglia nei loro rami e bussa delicatamente
alle finestre, accarezza i miei gatti addormentati sul letto. Comincia per me un’altra giornata di assenza dalla quotidianità della vita.
“Il Tribunale del popolo” che Sante Notarnicola racconta in questa sua poesia scritta nel 1973 dal carcere di Volterra. La dedico alle tante e ai tanti che, dietro le sbarre, aspettano ancora la Liberazione. 25 aprile.1945-25 aprile 2020.
Liberazione. La mia è la generazione che nacque dalle attese di quel
giorno: finita la guerra, finite le rappresaglie e la paura dei
bombardamenti…. nonostante le macerie del vivere quotidiano, la vita
aveva l’allegria e la fiducia del ricominciare.
Fu certo una grande speranza presto tradita.
Il nostro vivere presente è il frutto di quella rivoluzione tradita.
Hanno trovato il modo di imbalsamare anche la Liberazione,
criminalizzando e depotenziando quella che fu la sua unica vera forza,
invano repressa da eserciti, carceri, tribunali: l’odio contro
l’ingiustizia, la consapevolezza di chi è il nemico, la volontà di
sacrificio.
Se non recupereremo saperi e capacità di lotta collettiva, sarà troppo tardi.
Il modo giusto per ricordare la Resistenza è praticarla.
Oggi in carcere giornata vuota. Quel che per il
mondo è festa (il pranzo con amici e parenti, la passeggiata in centro,
la gita in montagna a scarpinare un po’ di neve) qui sono cortili
deserti, intravisti da lontano, attraverso le sbarre. Niente visite a
Capodanno, come del resto succede per tutti i giorni festivi. Sospese
anche le attività interne, scuola, laboratori, biblioteca, palestra. Ho trascorso le due ore d’aria camminando lungo i muri del cortile destinato
alla sezione “nuove giunte”, un vascone di cemento che esibisce in
bella vista, sotto l’occhio vigile delle telecamere, due osceni
pisciatoi. In tutto quel cemento ho cercato invano una crepa, una
fessura che lasci trapelare qualche traccia di natura, magari un filo
d’erba: niente. Il silenzio che grava intorno è rotto solo dai passi
delle detenute in marcia cadenzata sul duro pavimento: camminano
svelte per scaldarsi e smaltire l’immobilità forzata. Mi viene in mente
la “Marcia dei carcerati” di Van Gogh: figure di vinti, uomini
intabarrati, a capo chino, tranne uno che, a capo scoperto, fissa in
volto il testimone fuori dal quadro, con una muta domanda. Le mie
compagne camminano a piccoli gruppi. Qualcuna, sfidando il freddo, ha
steso per terra un telo e intavolato una partita a carte. Cerco uno
spicchio di sole, dove sedermi a leggere e, improvvisamente, alzando lo
sguardo al cielo, scopro un rettangolo di terso cobalto, non solcato da
nuvole né da voli: come un artificio, un’illusione ottica che accresce
il senso della non-vita di questo non-luogo.