Fogli di diario – 2 gennaio 2020

La cella dove ora vivo è rivolta ad oriente.
Vedo alzarsi un’alba tutta rossa, annuncio di una giornata di sole e cieli chiari. Il cielo, a poco a poco, trascolora in una luce che cresce, si fa gialla e poi di un tenero candore che, nel freddo di gennaio, sa già di primavera.
Penso all’ombra fitta degli alti cedri di casa mia. Il mattino si impiglia nei loro rami e bussa delicatamente alle finestre, accarezza i miei gatti addormentati sul letto.
Comincia per me un’altra giornata di assenza dalla quotidianità della vita.

Contro i tribunali del sistema

“Il Tribunale del popolo” che Sante Notarnicola racconta in questa sua poesia scritta nel 1973 dal carcere di Volterra. La dedico alle tante e ai tanti che, dietro le sbarre, aspettano ancora la Liberazione.
25 aprile.1945-25 aprile 2020.

Liberazione. La mia è la generazione che nacque dalle attese di quel giorno: finita la guerra, finite le rappresaglie e la paura dei bombardamenti…. nonostante le macerie del vivere quotidiano, la vita aveva l’allegria e la fiducia del ricominciare.

Fu certo una grande speranza presto tradita.

Il nostro vivere presente è il frutto di quella rivoluzione tradita. Hanno trovato il modo di imbalsamare anche la Liberazione, criminalizzando e depotenziando quella che fu la sua unica vera forza, invano repressa da eserciti, carceri, tribunali: l’odio contro l’ingiustizia, la consapevolezza di chi è il nemico, la volontà di sacrificio.

Se non recupereremo saperi e capacità di lotta collettiva, sarà troppo tardi.

Il modo giusto per ricordare la Resistenza è praticarla.

1 gennaio 2020

Oggi in carcere giornata vuota. Quel che per il mondo è festa (il pranzo con amici e parenti, la passeggiata in centro, la gita in montagna a scarpinare un po’ di neve) qui sono cortili deserti, intravisti da lontano, attraverso le sbarre.
Niente visite a Capodanno, come del resto succede per tutti i giorni festivi. Sospese anche le attività interne, scuola, laboratori, biblioteca, palestra.
Ho trascorso le due ore d’aria camminando lungo i muri del cortile destinato alla sezione “nuove giunte”, un vascone di cemento che esibisce in bella vista, sotto l’occhio vigile delle telecamere, due osceni pisciatoi.
In tutto quel cemento ho cercato invano una crepa, una fessura che lasci trapelare qualche traccia di natura, magari un filo d’erba: niente.
Il silenzio che grava intorno è rotto solo dai passi delle detenute in marcia cadenzata sul duro pavimento: camminano svelte per scaldarsi e smaltire l’immobilità forzata. Mi viene in mente la “Marcia dei carcerati” di Van Gogh: figure di vinti, uomini intabarrati, a capo chino, tranne uno che, a capo scoperto, fissa in volto il testimone fuori dal quadro, con una muta domanda.
Le mie compagne camminano a piccoli gruppi. Qualcuna, sfidando il freddo, ha steso per terra un telo e intavolato una partita a carte.
Cerco uno spicchio di sole, dove sedermi a leggere e, improvvisamente, alzando lo sguardo al cielo, scopro un rettangolo di terso cobalto, non solcato da nuvole né da voli: come un artificio, un’illusione ottica che accresce il senso della non-vita di questo non-luogo.