Da Genova, all’Altra Europa

carlo_viveUomini e topi, due grossi topi intenti a rodere un pezzo di pane e, poco lontano, un gruppetto di uomini, seduti a terra, a ridosso di antichi ruderi, a ripararsi dal solleone, abulici, come chi ha rinunciato anche all’illusione e si porta addosso la propria storia come un vestito liso. Intorno, una fiumana indifferente di turisti , di viaggiatori frettolosi.

Ecco l’ultima immagine che mi torna in mente di una lunga giornata romana, un pugno nello stomaco prima di farmi inghiottire dalla stazione Termini, anch’io fiondata verso un ahimè costosissimo Freccia Rossa che sta per partire.

Vi parrà questo un modo singolare e forse un po’ provocatorio da parte mia, di inviarvi il mio saluto , oggi che non sono con voi, perché ho scelto di andare a Genova, per ricordare Carlo ed i giorni del ControG8, che sembrano così irrimediabilmente lontani, anche se sono passati soltanto tredici anni.

Eppure dura e pesa quella sensazione che ci portiamo dentro, di speranza violentata ; ancora accende ribellione quel crogiolo di storie, età, esperienze, provenienze diverse, accorse a Genova per assediare i palazzi dove i signori della guerra e della finanza si erano riuniti a sancire i loro sporchi giochi di dominio globale. Striscioni, bandiere, canzoni, slogan, milioni di passi nei cortei gridavano un NO unanime e irriducibile a quel modello di vita e di futuro.

Ora che il potere violento e vendicativo del capitale sembra avere vinto, ora che la guerra e la repressione sono gli strumenti quotidiani contro chi non si adegua e lotta ancora, sappiamo quanto sia non solo possibile, ma indispensabile il mondo diverso che diede forza e voce a quei giovani liberi e generosi e finì colpito a morte insieme a Carlo.

Se avremo ben chiaro che lo sfruttamento, la disuguaglianza , la devastazione ambientale, la guerra del Nord contro il Sud del mondo (non più soltanto dimensione geografica, ma sociale) non sono una stortura del sistema, ma l’essenza del sistema stesso, allora, sgombri di ogni illusione riformistica e concertativa, potremo trovare nel conflitto i nostri compagni di strada….

E scopriremo che non tutti i semi di resistenza si sono persi nella mattanza di quel lontano luglio genovese: essi hanno il volto e le storie dei nostri figli e tornano a germogliare, dentro la precarietà, in nuove istanze di giustizia sociale, nell’amore per la terra, nella rabbia antica che si fa insieme mano solidale e lotta inflessibile.

Al loro fianco potremo costruire davvero non solo l’altra Europa, ma il mondo diverso possibile.

Allora anche chi vive tra le macerie, ridotto ad invisibile, riacquisterà voce e dignità, perché nella lotta nessuno viene lasciato indietro, ognuno è indispensabile, si parte e si torna insieme.

 

 

Dalla parte di Penelope

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La politica politicante saccheggia la mitologia, si appropria del mito di Ulisse, l’eroe crudele in guerra, innamorato dell’avventura che lo perderà, rispetto alla quale gli affetti quotidiani diventeranno un intermezzo dimenticato.

 

Accanto ad Ulisse è riscoperto Telemaco, il figlio che si avventura alla ricerca del padre.Telemaco legittimo erede del regno, del potere insidiato dalla torma dei pretendenti, nobili debosciati, prepotenti nullità.

 

Ma io voglio cantare Penelope, la donna, sposa di colui che, al richiamo delle trombe di guerra, l’ha lasciata, attratto dalle sirene del potere che si rinsalda su morti e devastazioni. Penelope, madre di un figlio cresciuto sul mito eroico del padre lontano, combattente inflessibile…..Ma forse lei, al bambino che voleva sapere, avrà narrato di un padre affettuoso , delicato e generoso, partito a malincuore perché lo imponeva la ragione di stato, malato di nostalgia e affamato di ritorno, non tanto per il ruolo di re, ma per le ragioni del cuore, per amore del figlio, della donna che amava, del vecchio padre, di quell’isola di pietre e vigne che rappresentava la sua culla e il suo ultimo orizzonte.

 

Penelope la resistente, che con l’intelligenza e il cuore dà scacco matto alla mala genìa dei pretendenti, i quali la vogliono come appendice indispensabile al regno che solo la sposa del re può garantire e legittimare.

 

La tela che Penelope tesse di giorno e disfa di notte non è soltanto il pegno di fedeltà al marito assegnatole dalla convenzione (e forse riscattato dall’amore), ma è soprattutto prova del suo spirito di libertà, della consapevolezza di essere donna, persona autonoma, non oggetto di intrallazzi politici e di dominio.
Di Ulisse sappiamo che, dopo il ritorno, lasciò ancora Itaca e andò a morire in un viaggio verso l’ignoto, con un gruppetto di fedeli, irriducibili compagni.

 

Di Penelope nulla più si dice, ma la immagino dolce e tenace, tra nipoti e pronipoti, o solitaria, sulla riva del mare, libera dall’attesa di Ulisse, a scrutare l’orizzonte che va oltre il tempo e le parla di noi delle nostre vite, dei nostri sogni.

 

Ed è suo il messaggio che, dal mare di Itaca fino alla Clarea, ci giunge, con la voce delle acque che vince il fragore del tempo, non intercettabile da sgherri e tribunali, per dirci che un mondo diverso è possibile ed ha la tenera, inflessibile, forte e gentile intelligenza delle donne.

 

La luna, la Clarea, la Valle che resiste

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La luna. Un volto tondo, di bimba dolente, che si fa strada tra le nuvole, in questa notte di Clarea.

I riflettori del cantiere, il barbaglio guerresco dei caschi di chi ci impedisce il passaggio non riescono a mascherare questa luna di luglio, amica per noi e per i viandanti notturni.

Intorno, nonostante il ronfare meccanico dei compressori, il bosco ci parla, amico e protettivo, con le masse oscure degli alberi, i sentieri percorribili solo da chi li ama, il mormorio delle acque.

Il Torrente Clarea, da cui ci dividono le truppe in assetto antisommossa, ci mormora amore e protezione, ci dice dei volti giovani, dei passi pazienti di chi valica in alto, a cui le sue acque fanno strada e alzano lo scroscio per coprire il calpestio.

Siamo più che mai una comunità in lotta, e la nostra ricchezza, le nostre armi invincibili sono le storie che parlano di testarda resistenza, di castagni centenari abbattuti per far posto al deserto, di barricate pazientemente costruite per proteggere la baita di pietra, le casette sugli alberi, il sogno alacre e concreto di un mondo diverso; e di volti, che certamente, dalle sbarre della repressione, ora, vedono questa luna compagna e pensano che la liberazione non si farà attendere.

Passano le ore, la luna in alto, cammina, accompagnata da uno sciame di stelle, tra nubi che erano minacciose e che ora si sono diventate bioccoli luminosi.

Noi siamo ancora fermi, bloccati da una barriera di caschi e divise, ma, di lontano, ci giunge la voce dei fuochi d’artificio che qualcuno ha acceso anche per noi; ed è gioia, consapevolezza di una collettività invincibile, perché in sintonia con la vita che sentiamo urgere nel respiro di questa notte resistente, rispetto a cui il cantiere è“ un atomo opaco del male”, destinato alla sconfitta e ad un rapido oblio.

La luna gioca a nascondino tra gli alberi del bosco lungo il Clarea, irridente rispetto ai lampeggianti blu dell’esercito schierato lungo le reti del cantiere; e sembra dirci che presto tutta questa truce messinscena finirà.

Quanta commovente allegria c’è nel ritorno, nel ritrovare i nostri figli viandanti dei boschi in questa notte incantata…

L’alba non è lontana, ce lo dice l’oriente dove il buio si fa meno fitto. La luna, ormai senza veli, illumina il sentiero e, dall’alto, arguta, ci sorride.