Tramonta un altro giorno di lotta NO TAV in Valle di Susa.

Il presidio dei mulini di Clarea è più che mai vivo e attivo, popolato di giovani e giovanissimi.
L’impegno di tanti anni non è stato vano, perché lascia il testimone ad una nuova generazione resistente, consapevole, generosa.
La libera repubblica della Maddalena, che nove anni fa abitò questi stessi luoghi e visse giorni e notti come queste, vede rinascere ora la propria concreta utopia.
Contro la forza di questo amore nulla potranno veramente i devastatori con le loro ruspe e la loro sbirraglia, come nulla possono l’asfalto e il cemento contro la tenacia delle radici che stanno smangiando a poco a poco i piazzali del cantiere, per riprendersi la terra che fu per loro casa e vita.
Vorrei essere materialmente con voi, care compagne e compagni, ma sono impedita dall’alienazione degli arresti domiciliari.
Intanto, vi affido allo splendore dei cieli notturni ed agli animali dei boschi, perché veglino sul vostro riposo.

Questa notte la luna

Questa notte la luna è un’esile falce,impigliata tra i monti del Moncenisio,ai margini del buio. Forse, ora, sta percorrendo il cielo della Clarea, sul presidio dei mulini, il più recente dei presidi NO TAV, nato da quattro giorni sull’urgenza della lotta, contro l’ennesimo attacco della lobby delle Grandi Opere.
Dal mio forzato esilio posso solo immaginare il silenzio di lassù, più prezioso perché faticosamente sottratto al sordo ronzio di sottofondo, che avvelena quei luoghi da quando sono caduti sotto il dominio dei cantieri, autostradale prima, ora del TAV.

Forse i presidianti, vinti dal sonno e dalla fatica, non vedono la luna che veleggia alta e sembra accarezzare con la sua luce il piccolo accampamento di resistenti. Ma certo qualcuno veglia sul riposo di tutti, attento ai rumori, all’insidia degli attacchi notturni.

Più in basso tutto è pronto per l’ennesima devastazione: cumuli di ferraglia, la piattaforma che farà da nuovo ponte sul Clarea e gli uomini in arme, asserragliati nel fortino che avanza cancellando boschi, radure, vigne, specchi d’acqua ancora densi di vita.

Mi tornano in mente questi stessi luoghi, com’erano in un tempo che mi sembra lontano di secoli. Niente autostrada del Frejus, allora, niente progetti di supertreni, solo una stradina che, dall’abitato di Giaglione, si snodava verso Chiomonte, tra muretti a secco, vigne, castagneti, radure ricche di erbe aromatiche e medicinali.
Si arrivava ai mulini di Clarea come ad un luogo delle favole: le case di pietra grezza fra boschi, castagneti, prati perennemente fioriti per l’abbondanza di acque, profumati di aglio ursino a primavera, prodighi di funghi in autunno.
Ora di quel mondo restano i ruderi: tetti sfondati, muri cadenti. Degli antichi mulini è rimasta qualche macina, pezzi di tramoggia; scomparsa la grande ruota che ricordo ancora in funzione nell’ultimo dei mulini, quello che oppose all’autostrada una resistenza ahimè vana.

Ma l’essenziale è non dimenticare. Il potere teme la memoria , perché in essa continuano a vivere le istanze e la rabbia dei vinti , la volontà di riscatto, la nostalgia per la bellezza perduta.
Certo le truppe d’occupazione che stanno militarizzando la Valle e e i boschi intorno al presidio nel tentativo di isolare e prendere per fame i resistenti, non sanno che la montagna offre, a chi la protegge, mille sentieri; e che l’amore per la propria terra ha tenacia e risorse infinite.
Anche la luna in cielo è una falce affilata.

Fogli di diario – 12 gennaio 2020

Arrivo al cortile di quella che in gergo carcerario si chiama l’ora d’aria
Sola: è domenica mattina e, delle mie compagne, qualcuna prolunga il riposo in branda, qualcun’altra per l’ennesima volta pulisce a fondo la cella.
Un gruppetto è salito in cappella, dove si celebra la messa. Molte ci vanno perché è un’occasione per uscire dal cubicolo dove si è costrette a vegetare, ma soprattutto perché si possono incontrare le recluse delle altre sezioni, scambiarsi un furtivo saluto, sussurrarsi qualche notizia del mondo fuori. Una messa in cui è vietato ogni contatto, perfino l’abbraccio del segno di pace previsto dal rito. Mi si racconta di una guardiana munita di un lungo bastone col quale ha l’abitudine di punzecchiare chi si fa sorprendere a parlare con la “compagna di banco”.
Io voglio evadere all’aperto, via dalla lunga tortura della notte insonne, dalla trappola di quel pertugio tra le sbarre, Mi serve aria, sia pure l’aria inquinata di questa degradata periferia cittadina; mi serve spazio, sia pure il breve cortile di cemento intrappolato fra i muri.
Per questo scendo, sola.
Le secondine alla rotonda mi hanno dato un distratto “via libera”, senza neppure la consueta perquisizione.
Deserte le scale, deserti i corridoi . In questo labirinto che è il carcere stento a trovare la strada verso l’area assegnata alle “nuove giunte”. Costeggio una serie di cancelli blindati, ed ecco, alla fine, lo spazio a me consentito.
Il cancello è aperto; non ci sono guardiane, tutto è immobile, davvero surreale.
Sotto il rettangolo di cielo intensamente azzurro che mi sovrasta urla l’illusione che sia qui l’anello che non tiene, il filo d’Arianna capace di condurre fuori da questa fortezza, alla campagna aperta.
Cammino lungo i muri ascoltando l’eco dei miei passi sul cemento.
Dalle pensiline piovono gocce di condensa: è il freddo notturno che si liquefa in un tepore di precoce primavera.
Il sole avanza a poco a poco. Sul pavimento del cortile si allarga una striscia luminosa; la percorro avanti e indietro, lentamente, e sento la gioia delle membra che si sciolgono, la ritrovata serenità del cuore.
Dalle finestre dell’ultimo piano si alza un canto corale, uno di quelli che accompagnano le celebrazioni liturgiche: voci femminili anch’esse in corsa oltre le sbarre.
Ricordi, analogie, immagini che emergono e prendono corpo e voce.
Chiostro di convento. Monastero di Santa Chiara, la Napoli degli amati vicoli, alla quale ritorno, ogni volta, come ad un’avventura.
Questo cortile spoglio di prigione mi riporta, per contrasto (o per corrispondenza?) a quell’antico chiostro di convento napoletano, clausura dorata per le fanciulle nobili non destinate al matrimonio o per le troppo povere, adibite a ruoli ancillari: prigioniere anch’esse, nonostante la ricchezza dell’edificio, lo splendore dei viali di aranci, dove da secoli i fiori profumati si alternano ai grandi frutti d’oro e di rame.
In quel giardino le ceramiche di Capodimonte, che ornano i sedili e delimitano sentieri ed aiuole, raccontano la storia di un mondo negato per sempre alle fanciulle velate: i balli di corte e le allegre scampagnate, la vita del porto con i velieri che puntano all’orizzonte, l’immaginaria Arcadia dei pastori, il brulichìo dei quartieri poveri dove miseria e nobiltà rappresentano le due facce della stessa realtà. Su di tutto il Vesuvio col suo eterno pennacchio di fumo.
Pure quella una vita per procura, un fine pena mai, non compensabile da privilegi né da omaggi devoti.
Continuo a camminare, sospesa in una bolla di spazio e di tempo, come sottratta al potere dai cento occhi— e mi sento quasi felice.
Su di me un volo di colombi.
Anche il cielo sorride.
Ed è un grido di gabbiano quello che echeggia all’improvviso oltre i tetti.
Ecco il grande uccello apparire, scomparire portando con se la propria voce che sa di avventura e di malinconia.
Forse, oltre le mura, il mare…..