Sui trenini di Clalabria

Il mio viaggio in treno in questa terra di Calabria povera, bella e generosa sta per terminare.
Due giorni di avventura, a velocità forzatamente bassissima, dal Tirreno allo Ionio, attraverso luoghi dove si respira la precarietà del vivere schiacciati tra la voracità delle grandi male opere e l’abbandono inevitabile per mancanza di lavoro e di opportunità.
Non un’evasione turistica, ma un’iniziativa di inchiesta e di denuncia, organizzata da Francesco e dai compagni di Potere al Popolo, per evidenziare l’altra faccia della ferrovia, lontana anni luce dai “treni di lusso lontana destinazione”, fatta di linee pendolari a breve e media percorrenza, quelle che offrono alle persone e ai territori un servizio quotidiano, indispensabile per non morire di isolamento.
E’ questo il tratto calabro degli undicimila chilometri di strada ferrata che il piano di privatizzazione delle ferrovie, trent’anni fa, definì “rami secchi” e ne decretò la dismissione, spostando progetti e denaro pubblico sui restanti cinquemila chilometri “ compatibili con l’alta velocità ferroviaria”, il TAV, appunto.
Qui niente Frecce rosse, ma trenini diesel, poche vetture annerite dal tempo che, nelle ore di punta, si riempiono di studenti e arrancano, con ritardi ormai endemici, su linee a binario unico, che la natura si sta riprendendo e ne medica le ferite.
Qui niente stazioni internazionali né stazioni–vetrina, ma stazioncine abbandonate– alcune addirittura murate – corrose dal tempo e dall’incuria.
Il primo giorno percorriamo la dorsale tirrenica, da Lamezia a Reggio. Più che un viaggio in treno è un’avventura tra auto, treni, pullman sostitutivi, in un continuo rimbalzarsi di disservizi e responsabilità fra Trenitalia e Ferrovie calabro-lucane.
Nelle stazioni c’è la malinconia delle stanze vuote, la repulsa delle porte sbarrate. Sulle facciate resistono leve-scambi arrugginite , fra i binari la carezza di erbe in fiore.
A Catanzaro Lido i compagni ci preparano un’accoglienza affettuosa; meno amichevole, invece, la polizia che ci identifica e ci scheda, riservandosi di “comunicare eventuali infrazioni”(?). Evidentemente tutto il mondo è paese….
Verso Catanzaro-città si inerpica un trenino a cremagliera. Intorno un paesaggio assediato dal cemento delle grandi opere accanto alla precarietà di mega-infrastrutture in abbandono. L’eccezione sono i brevi scampoli di verde e case di una periferia degradata , i luoghi contadini che un tempo erano la regola ed ora rappresentano l’anomalia.
Il viaggio prosegue per Reggio. Arriviamo al Vallone della Fiumarella. I compagni mi raccontano la tragedia dei primi anni ‘60, quando un treno in arrivo da Soveria Mannelli, carico di studenti , deragliò e cadde nel burrone, falcidiando un’intera generazione: settantun morti e ventotto feriti. Anche il convoglio su cui, in queste ore di primo pomeriggio, stiamo viaggiando, è pieno zeppo di studenti che ritornano dalle scuole di Catanzaro. Le poche vetture sono sovraffollate, tanto che non troviamo posti a sedere.
Ad attenuare il disagio di questo lentissimo andare c’è il paesaggio: la fitta macchia mediterranea di cui giungono profumi e colori, i paesini arroccati sulla roccia, struggenti nell’abbandono di finestre chiuse e vicoli deserti, la primavera delle radure incastonate tra i boschi.
Luoghi di eretici e di emigranti: eretici come i compagni che mi stanno accanto, testardamente fedeli ad una lotta antica e sempre nuova; emigranti, come nel disincanto degli studenti che mi raccontano delle loro prospettive dopo il diploma: i paesi del Nord Europa e oltre.
Il percorso ferroviario si conclude a Soveria Mannelli. A pochi chilometri, da ormai una decina d’anni, una frana ostruisce i binari, mai rimossa, perché anche qui “Cristo si è fermato”, come nelle tante Eboli di questo nostro paese di poche inenarrabili ricchezze e di infinite, intollerabili povertà.
In auto raggiungiamo Colosimi, l’ultima stazione dismessa, a ridosso della frana. Strada dissestata; nel piccolo piazzale un pullman come un relitto in abbandono, il freddo pungente di una sera senza focolari.
L’auto è l’unico mezzo per raggiungere Reggio, in tempo per l’assemblea che si terrà con gli attivisti del NO Ponte e delle cooperative solidali.

Mattina del secondo giorno. Ripartiamo da Marzi, il Comune oltre la grande frana.
Oggi siamo diretti alla tratta ionica. Fino a Cosenza ci accompagna una giovane giornalista, anch’essa precaria come la maggior parte dei ragazzi che abbiamo incontrato.
Scendiamo alla stazione Vaglio Lise, poi ripartiamo in pullman verso Paola: dallo scorso dicembre la linea ferroviaria è interrotta e messa sotto sequestro giudiziario per un deragliamento in galleria. Sempre la stessa storia: infiltrazioni d’acqua, mancata manutenzione dei binari, assenza di strutture di sicurezza. Il dramma quotidiano di un patrimonio ferroviario che è prezioso, ma che è lasciato volutamente in abbandono per concentrare su costruende cattedrali nel deserto i soldi pubblici che a ben altro dovrebbero servire. Ed anche in questo caso, nel gioco dello scaricabarile, è stata tentata la carta dell’errore umano, mettendo nel registro degli indagati il macchinista “ per imprudenza ed imperizia nella conduzione del convoglio”.
A Paola , di fronte alla stazione, ci accoglie la statua in bronzo del santo protettore della città, il monaco Francesco dal piglio severo e dal nodoso bastone. Ma neanche la potenza taumaturgica basta a migliorare la situazione. Nell’atrio i passeggeri attendono senza troppe speranze il transito di un treno notte proveniente dal Nord, per il quale gli altoparlanti annunciano ore di ritardo .
Una stazione senza orari né indicazioni: aspettiamo a lungo il pullman che ci riporta a Cosenza e alla fine rischiamo di perderlo perché la fermata è una specie di segreto per pochi intimi.
Calma piatta, qualche commento di rassegnata ironia…; ma ad un tratto, tra i marmi anonimi e l’asfalto del piazzale si insinua una premonizione di bellezza: si è alzato il vento di scirocco e ci porta l’odore del mare….
Ci apprestiamo così all’ultima tappa, da Cosenza a Sibari.
Stazione di Cosenza Vaglio Lise: una mega -stazione fantasma, nella quale sono in arrivo e in partenza rari treni. Sorta all’estrema periferia, soppiantando l’antica stazione ferroviaria di centro-città e occupando vaste aree agricole, inaugurata a metà degli anni ottanta, è costata quattordici miliardi di vecchie lire. Quella che doveva essere per il ministro Mancini il fiore all’occhiello delle ” magnifiche sorti e progressive” cosentine e calabresi, in pochi anni si è ridotta a cattedrale nel deserto, mai decollata, brutta, vuota, inutile, già cadente.
Mentre aspettiamo il treno per Sibari sotto una pensilina sferzata dalla pioggia, l’altoparlante annuncia al nulla cancellazioni di corse e ritardi.
E’ ormai caduta una notte senza stelle. Siamo gli unici viaggiatori di questo piccolo treno che va lentamente, nel buio, attraverso terre un tempo di favolosa eleganza e ricchezza. Penso ai Sibariti di cui ci parlano gli storici antichi, colti e gaudenti, dediti alla bellezza e ai piaceri a tal punto da meritarsi la punizione da parte degli dei invidiosi e vendicativi. Non so se il mondo che scorre fuori nel buio porti ancora traccia di tanto splendore o di così terribile maledizione. Sibari ci viene incontro piano piano, col tremolio delle sue luci: una città che non vedrò perché il tempo mi porta via. Vedo invece la stazione: stessa solitudine identico abbandono di sempre.
Nella piccola piazza, tra parcheggi deserti, ci aspettano le auto che ci porteranno a Trebisacce. Vi troviamo aperto un solo locale: niente raffinate delizie, ma kebab, falafel e un cuoco gentile, che ci permette di ricaricare i cellulari.

L’avventura in ferrovia sulle linee dimenticate della Calabria finisce qui.
Ci aspetta un’ultima assemblea con gli attivisti di Trebisacce riuniti nella Rete Autonoma Sibaritide per l’Autotutela. Qui i compagni mi raccontano di questa piana favolosa posta tra i monti e il mare, fertile e ricca di storia; ma un cancro la minaccia, la lobby del tondino e del cemento che, con la promessa di posti di lavoro, preannuncia strade, superstrade, autostrade là dove, come diceva un poeta, “…è riunita ogni bellezza in una volta: la ridente verzura dei dintorni di Napoli, la vastità dei più maestosi paesaggi alpestri, il sole ed il mare della Grecia”.
L’incontro si svolge con interventi appassionati. Nella tenacia di queste donne e di questi uomini semplici e coraggiosi ritrovo lo spirito della mia Valle che lotta contro il TAV…e anche la poesia che nasce dall’attaccamento alla terra e alle sue creature, capace di insinuarsi nella vita quotidiana e di renderla migliore, più felice.
E’ un narrare semplice e concreto, fatto di cose e di emozioni, e anche di ironia, come nel racconto della strada miracolosa, progettata come singola e, in corso d’opera, diventata trina.
Quando ce ne andiamo a tarda sera, ci accompagna la voce del mare, profonda, misteriosa, carica di messaggi.

Mentre scrivo, ripenso con nostalgia a questi giorni trascorsi tra rabbia e felicità . Rabbia per l’ottusità di un sistema che fa della vita e della bellezza del mondo merce vile da usare e gettare. Felicità perché sento avvicinarsi la primavera, voluta, accudita e protetta dalle mani tenaci dei tanti che non hanno rinunciato a sognare il mondo diverso possibile e lottano testardamente, ogni giorno, perché il sogno si avveri.

L’antifascismo non si arresta!

Sera. Sono circa le venti. Una serata come tante, tranquilla, un po’ sonnolenta, di quest’inverno che non vuole finire.

Alla Credenza il forno è acceso e Giorgio al lavoro come sempre, a sfornare pizze e battute.

Ma all’improvviso tutto cambia: entrano otto individui, in borghese, due mascherati; c’è anche una donna. Senza qualificarsi né presentare mandati, prendono Giorgio e se lo portano via, così com’è, in maglietta e grembiule: tutto in pochi minuti, resta appena il tempo di allungargli una felpa.

Intanto ad intasare via Fontan si sono materializzati mezzi e uomini armati; anche gli accessi alla via e al centro storico sono presidiati.

Giorgio viene imbucato in un’auto e portato via. Terminata la battuta di caccia, i cacciatori scompaiono, in un lampo, e tutto torna uguale, la strada deserta.

Qualche passante sorpreso entra a domandare che cosa è successo. Sul banco sono rimaste pizze da infornare, la pala abbandonata, una mestolata di conserva.

Piu tardi compare un filmato diffuso dalla polizia di stato: ululi di sirene, una squadretta di uomini neri che spinge su per le scale di un edificio cittadino una figurina bianca, in maglietta e grembiule: Giorgio, il volto serio ma non impaurito, l’unica sembianza umana in mezzo ad una schiera di robot.

Per la Credenza e per chi lo conosce Giorgio è un figlio e un compagno generoso, colpevole di essere antifascista, antirazzista, NO TAV, solidale sempre, vile mai: questa per il potere è la vera, imperdonabile colpa.

Ora Giorgio è in carcere, insieme a Moustafa, un altro compagno arrestato a Piacenza.

In tanti anni di lotta abbiamo sperimentato sulla nostra pelle e sui luoghi di vita e di lavoro la violenza del capitale e degli uomini che lo proteggono, con le armi e con la legge.

Contro i fascismi e i razzismi vecchi e nuovi non servono parole, ma fatti, prima che sia troppo tardi.

La Costituzione nata dall’Antifascismo e dalla Resistenza vieta “ la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma” del partito fascista: siamo dalla parte degli antifascisti che a Piacenza hanno manifestato fedeltà concreta a questo principio.

Vogliamo Giorgio e Moustafa liberi subito.

L’antifascismo non si arresta, si pratica e si rivendica!

Ciao, Giorgio….

Una piccola nottola di ceramica, un komboloi, pagine di diario, tante foto, messaggi sempre più concisi, poi il silenzio e , qualche giorno fa, la notizia che temevo: Giorgio, George Grous, non c’è più.
L’avevo conosciuto nell’estate del 2015, ad Atene, nei giorni torridi del referendum sui trattati UE. Parlava l’italiano perché aveva studiato filosofia a Bologna, per questo si prese cura di me facendomi da accompagnatore e da interprete.
Giorgio era impegnato sul fronte del NO ai memorandum e negli anni precedenti aveva vissuto in prima persona le lotte che espressero nella vittoria del NO referendario l’ultima fiammata.
Nei mesi successivi fu ancora lui a guidarmi per le vie e le assemblee di una città sempre più povera ed annichilita, che aveva contato sul governo di Syriza e si ritrovava senza rete, priva di risorse materiali e morali per una riscossa collettiva.
Fu lui ad accompagnarmi alle mense popolari, all’ambulatorio autogestito dell’Ellinikò per portare i medicinali acquistati con il contributo della solidarietà NO TAV e farmi incontrare le storie dei tanti senza casa, lavoro, assistenza medica, futuro.
Anche Giorgio aveva perso il proprio lavoro di educatore e si manteneva con qualche lavoretto precario come interprete e accompagnatore turistico: povero e dignitoso, viveva la sua precarietà senza piangersi addosso e senza rinunciare all’esercizio di uno spirito lucidamente critico, che non faceva sconti.
Con lo stessa forza ha affrontato la malattia, un tumore che l’ha portato via nel giro di un anno, vittima di una sanità a pezzi, in una Grecia strozzata dall’Europa della troika, in una città dove vengono chiusi gli ospedali pubblici, ma prosperano le cliniche private.
Da metà dicembre Giorgio non rispondeva più ai miei messaggi. Ho saputo solo ora che se ne è andato, il 13 di dicembre. Pochi giorni prima era morto il suo vecchissimo, amato cane Rubi.
Lo rivedo assieme a Rubi, per le vie di Exarchia, tra murales e orti urbani, spazi sociali autogestiti e parchi fioriti di oleandri, dove approdavamo scendendo dai quartieri popolari alle pendici del Licavetto, nei quali stava la sua casa, alta sulla città.
E mi torna in mente il giorno che andammo al Pireo, il suo sguardo rabbuiato di fronte alle banchine del porto, tra profughi accampati nei giardini, bambini che chiedevano la carità e cani abbandonati. Una desolazione senza fine, davanti a cui ci si sentiva piccoli e impotenti: non ci rimase altro che fuggire.
Quarant’anni, troppo presto per morire. Non posso pensare ad Atene senza Giorgio. Con lui se ne va un compagno ed un figlio.
Un abbraccio ai suoi cari, a chi gli ha voluto bene.