Nella penombra della mia stanza splende un mazzo di rose. Di solito evito i fiori recisi: mi sembrano sottratti alla terra e mandati a morire in luoghi estranei e paurosi.
Ma queste rose sono la povera, deperibile merce di un venditore ambulante, un piccolo indiano che ormai da anni, a sera, sbarca in Valle di Susa e gira tutta la notte per i locali pubblici offrendo l’effimera bellezza di quelle forme e di quei colori. Dura vita la sua, indifferenza sgarbata, chilometri fatti a piedi nel cuore della notte e il treno del ritorno all’alba ( mi capitò di incontrarlo al primo treno del mattino, io in partenza verso una delle tante assemblee, lui ciondolante di sonno, ma col consueto sorriso di fanciullo).
La Credenza è diventata per lui tappa consueta, l’occasione per una sosta e per offrire l’invenduto; sono sue le rose che ora occhieggiano dal mio tavolo, eleganti e colorate, ma senza profumo: non allargheranno mai le loro corolle, immemori dei roseti dall’altra parte del mondo, raggelate nelle celle frigorifere, cadaveri imbalsamati, il bocciolo improvvisamente ripiegato su un fusto e su foglie ancora all’apparenza vigorose.
Ma alcune di quelle rose hanno le sfumature dell’aurora, un pallore che si accende nello squillare del giallo e del carminio, una fisicità familiare, che mi riporta indietro, a tempi e luoghi irrimediabilmente lontani.
Nel cortile della mia infanzia esisteva, in un angolo, circondato da un’alta rete, un orto; nulla più che un fazzoletto di terra con qualche cespo d’insalata , stentate piante di pomodori: uno scampolo di verde polveroso, ma, nella mia immaginazione di bambina, luogo delle meraviglie, inaccessibile e per questo più desiderato.
Il cuore di quel mondo favoloso era una pianta di rose che ad aprile si copriva di germogli e a maggio di fiori. Quel dono di effimera bellezza che illuminava il modesto cortile mi dava insieme gioia e malinconia, come il baluginare improvviso di un messaggio subito svanito.
Fu il desiderio di riprodurre quelle sensazioni a farmi scoprire la magia creatrice della parola.
Doveva essere un pomeriggio di fine maggio, le rose al di là della rete splendevano di colori e di profumo, come sempre irraggiungibili.
Fu allora che presi carta e matite colorate, per fermare quelle immagini leggiadre, la tenerezza di quelle sfumature. Seduta sulla soglia di casa mi avventurai in un tentativo che sentii subito inefficace: figure rigide, tinte che nulla avevano di quel pallore rosato; e come rendere la forza seduttrice del profumo ?
Ma ecco venirmi in aiuto, come un talismano, la parola scritta, e per la prima volta non fu semplicemente scialbo pensierino scolastico o noia dei temi di maniera, ma la sentii materia viva, capace di comunicare e di consolare, forza evocativa, ponte verso l’ignoto.
Tanto tempo è passato, la memoria spesso si confonde, diventa testimone di una realtà deformata, ma il ricordo di quel pomeriggio lontano mi ritorna netto, di una fisicità quasi dolorosa, in questa notte inondata dal profumo dei tigli, a rammentarmi che non è più tempo di progetti, ma di bilanci.
Le rose dal tavolo mi guardano assorte.