1 gennaio 2020

Oggi in carcere giornata vuota. Quel che per il mondo è festa (il pranzo con amici e parenti, la passeggiata in centro, la gita in montagna a scarpinare un po’ di neve) qui sono cortili deserti, intravisti da lontano, attraverso le sbarre.
Niente visite a Capodanno, come del resto succede per tutti i giorni festivi. Sospese anche le attività interne, scuola, laboratori, biblioteca, palestra.
Ho trascorso le due ore d’aria camminando lungo i muri del cortile destinato alla sezione “nuove giunte”, un vascone di cemento che esibisce in bella vista, sotto l’occhio vigile delle telecamere, due osceni pisciatoi.
In tutto quel cemento ho cercato invano una crepa, una fessura che lasci trapelare qualche traccia di natura, magari un filo d’erba: niente.
Il silenzio che grava intorno è rotto solo dai passi delle detenute in marcia cadenzata sul duro pavimento: camminano svelte per scaldarsi e smaltire l’immobilità forzata. Mi viene in mente la “Marcia dei carcerati” di Van Gogh: figure di vinti, uomini intabarrati, a capo chino, tranne uno che, a capo scoperto, fissa in volto il testimone fuori dal quadro, con una muta domanda.
Le mie compagne camminano a piccoli gruppi. Qualcuna, sfidando il freddo, ha steso per terra un telo e intavolato una partita a carte.
Cerco uno spicchio di sole, dove sedermi a leggere e, improvvisamente, alzando lo sguardo al cielo, scopro un rettangolo di terso cobalto, non solcato da nuvole né da voli: come un artificio, un’illusione ottica che accresce il senso della non-vita di questo non-luogo.

Ordinaria domenica di epidemia

Qui intorno non circola nessuno. La giornata è nuvolosa, ma più tersa delle giornate ventose del passato.
Il mio glicine si è allungato sul cancello; sembra più vivo e più felice che mai. L’erba cresce fiduciosa e curiosa. I miei gatti attraversano la strada senza il pericolo di essere investiti.
Mentre l’essere umano è costretto in casa, la natura rifiorisce: evidentemente non sente la mancanza di chi l’ha sfruttata, segregata, offesa.
L’ ordine altro che ci viene imposto da un potere che sta preparando un futuro ancora peggiore dell’invivibile presente, prevede – oltre al pugno di ferro contro i carcerati , lasciati in catene davanti al coronavirus – l’eliminazione, sia pure grondante di cordoglio, degli anziani, la cui morte significa meno pensioni da pagare, con evidente sgravio per le finanze di una collettività senza memoria..
Quanto agli gli encomi ipocriti per il personale sanitario “ in trincea”, non devono far dimenticare i quarant’anni di pesantissimi tagli alla sanità pubblica, sull’onda del “ privato è bello”, mentre le casse dello stato venivano sistematicamente svuotate a favore delle grandi male inutili opere, le stesse che rimangono prioritarie per i bilanci del dopo-epidemia, perché “portano lavoro”.
Fanno un brutto effetto lo sventolìo delle bandiere tricolori di un rinato nazionalismo da adunate oceaniche sia pure in chiave buonista, l’esibizione dei cliché televisivi su una solidarietà emergenziale non destinata a durare,
E che dire dell’animalismo equivoco di quanti, all’improvviso, scoprono che adottare un cane può essere un utile salvacondotto per uscire a passeggio? (pare che i canili siano assediati da richieste di animali, alle quali hanno deciso di non rispondere, per evitare il probabile “usa e getta” in un futuro tornato “normale”).
In un paese costretto ai domiciliari dalla legge dell’epidemia, mi sembrano quasi la normalità i miei domiciliari da tribunale…: “mal comune, mezzo gaudio”? No, preferisco il grido delle barricate NO TAV: si parte e si torna insieme!

A che cosa serve il carcere?


Da quest’ esperienza una cosa l’ho imparata: che il fine esplicito ed istituzionale del carcere è quello di ridurre all’obbedienza, cieca, contro qualsiasi coscienza critica, ogni autonomia: a questo sono finalizzati lo stravolgimento dei tempi e degli spazi, l’arbitrarietà degli ordini, la sistematica repressione di ogni obiezione, la violenza psicologica e l’umiliazione delle perquisizioni corporali ogni volta che ti muovi, le battiture dei blindi nelle ore più improbabili, le celle buttate all’aria per cercare il nulla assoluto, l’obbligo di domandina scritta al direttore per le cose più ovvie (comprare i gettoni per la lavatrice, ricaricare la scheda telefonica, mandare a casa oggetti o libri….), la chiusura delle celle più volte nella giornata senza un preciso motivo, la prepotenza delle guardiane che negano o concedono a capocchia, il sentir chiamare “Africa”, “india”, “Cina” le tue compagne dalle secondine che ne cancellano volutamente nome e cognome….
Uno degli ultimi interfaccia è stato con quella che ci teneva a sottolineare il suo grado… ” si sente offesa? Da cosa? Parla con me come se fossimo fuori dal carcere…Qui le regole sono diverse….” Le regole sono le loro , rispetto alle quali loro sono tutto e tu non sei niente.
Solo se diventi un utile strumento, poi essere , minimamente, tenuto presente. Nel momento in cui sei pronta a chiamare le guardiane per risolvere un litigio con la tua compagna di cella o non hai problemi a dare informazioni su come si comportano e di che cosa parlano le “attenzionate speciali”, allora sei sulla buona strada,in gara per rientrare nella “società civile”… L’unico carcere accettabile è quello abolito.