Fogli di diario – 7 gennaio 2020

Oggi è per me la prima giornata di colloqui. Mi hanno avvertita all’ultimo momento che devo prepararmi.
Mi prende un po’ di angoscia: è opportuno che mi presenti al meglio per non dare preoccupazioni a chi ho lasciato fuori dalle mura. Non ho un filo di rossetto da mettermi (lo stick che mi ero portata giace al casellario, come la boccetta di profumo che mi seguiva da Atene, con la sua fragranza speziata). Certo, dopo una settimana di di digiuno forzato per l’immangiabile sbobba del carcere, la mia linea sarà perfetta.
Aspetto chiusa in cella. Il tempo, senza orologio, non passa mai….. Nessuno viene a prelevarmi. Ma sarà vero che c’è qualcuno per me?
Finalmente arriva la secondina. Sferragliare di chiavi che aprono il cancello. Percorro il corridoio accompagnata dagli sguardi delle altre rinchiuse.

Al piano terra c’è un gruppetto di donne pronte per il colloquio, provenienti da sezioni diverse.
Noto che tutte hanno un sacchetto o una borsa di tela da cui spunta il collo di una bottiglietta. Alcune discorrono sottovoce tra di loro, in un piemontese particolare, una specie di esperanto regionale che sa di terra e di vigna , di risaie e di frutteti: è l’idioma antico comune a chi si muove, stagione dopo stagione, dietro al lavoro e sedimenta un linguaggio fatto di luoghi e di epoche diverse. Sono le donne della comunità sinta,, legate tra di loro da vincoli atavici di parentela, sparse in tutte le sezioni. In quel loro discorrere fitto si coglie, insieme alla gioia di ritrovarsi, il bisogno di riaffermare un’appartenenza, i segni bistrattati di radici comuni, mai dimenticate.

Finalmente ci muoviamo.
Si riapre la porta del blocco femminile da cui sono entrata, un secolo fa…..Cortile,…padiglione colloqui…noi in fila indiana dietro la secondina , porte aperte e richiuse alle nostre spalle, dedalo di corridoi….
Arriviamo in zona colloqui. Ennesimo controllo.Tutte hanno la prenotazione scritta tranne me….mi prende la paura del vuoto….No, è il primo colloquio, basta richiesta telefonica da parte del parente consentito e quel parente mi sta aspettando….

Ma non è ancora finita: anche i visitatori devono essere controllati,attraverso il passaggio al metaldetector insieme ai pacchi che vogliono fare entrare,,,,
Dunque ulteriore attesa, chiuse in una saletta adibita in origine ai colloqui per i detenuti del 41 bis. Spessi vetri divisori, barriera invalicabile tra le due parti del bancone, senza possibilità di comunicare se non attraverso microfoni. Se i vetri appaiono pieni di crepe, resiste il cemento, gridano ancora disumanità i segni di contatti fisici impossibili.

Finalmente si può andare. Percorriamo l’ultimo tratto di corridoio sotto lo sguardo ironico di secondini maschi ( da loro è gestito il blocco colloqui).

Lo vedo in mezzo ai parenti raggruppati in fondo alla sala, con la grande figura e la giacca a quadri di sempre…..e, improvvisamente sento dilagarmi dentro la nostalgia che in tutti questi giorni ero riuscita ad esorcizzare….Con lui c’è l’aria di casa mia, ci sono i miei animali… e c’è la Valle, le sue lotte di sempre, con gli affetti, i pericoli, il dolore e l’allegria di una vita vera….

Prendiamo posto ad un tavolino. Insieme ai messaggi e saluti, ai racconti di iniziative scaturite da una solidarietà grande ed inaspettata, ci sono i silenzi di un’intimità infranta, raggelata da quest’universo dove non c’è posto per la gentilezza….

La sala colloqui è piena di parole e di sofferenza, Qualcuno piange, altri discorrono fitto. Dalle borse che le detenute hanno portato con sé spunta l’umile omaggio, la testarda ricerca di quotidianità a cui ci si appiglia per non snaturarsi: sui tavoli compaiono bottigliette di caffè, qualche merendina da consumare insieme, qualcosa da offrire, come quando si hanno visite, a casa….

L’ora di colloquio è già volata via, inesorabile.
Entra la guardia a richiamare le detenute, nominandole ad una ad una. Gli ultimi saluti affannosi sotto l’occhio indiscreto delle telecamere.
Prima di uscire dalla sala, mi volto un’ultima volta; lo vedo scomparire dalla porta di fondo, a testa bassa e mi stringono il cuore quei radi capelli grigi, quel passo stanco di persona anziana….

Ma per le detenute non è ancora finita: prima di recuperare i pacchi portati dai parenti, c’è la perquisizione corporale.
Chiuse in una stanza, aspettiamo l’arrivo della guardiana. A seconda di chi ci capita, la perquisizione sarà più o meno approfondita. Via le scarpe, le calze, i pantaloni. Alzare la maglia, abbassare le mutande, scuotere il fazzoletto…
Il rito è insopportabile, tanto più insopportabile quanto più immotivato. Accanto alle altre che, come me , si rivestono in fretta, mi sento montare dentro la marea dell’odio…

6 gennaio, Epifania, “rivelazione” – Fogli di diario.

Vertigine. Sento il salto nel buio che sta coinvolgendo la mia generazione, Più che mai ora, in questi tempi in cui l’epidemia inghiotte, giorno dopo giorno, persone care, alle quali non posso e non voglio rinunciare..
Contro il buio cresce l’urgenza di lasciare qualche traccia, qualche messaggio per chi viene dopo ed è già sulla strada, nella prospettiva della lotta di sempre.

Fogli di diario.

Quello che oggi si rivela, in questo non-luogo, è la falsità di una democrazia traditrice non solo del popolo che per essa lottò, ma delle ragioni elementari della vita.
Quel che appare in tutta la sua violenza, in questo mondo di vivi condannati all’immobilità è un sistema vendicativo, che fa il deserto e lo chiama pace .
………..
Qui oltre le sbarre avanza la giornata immobile dei giorni festivi, Il deserto di attività e di messaggi da fuori.
Sono riuscita, non senza ripetute chiamate, ad andare in doccia; Acqua calda, dopo l’acqua gelata della cella: la sua carezza mi fa bene, è casa…Ma l’illusione finisce, la cella pretende il ritorno, la secondina aspetta con le chiavi, per richiudere….
…………..
Poco prima di mezzogiorno sono passate due anziane suore, a regalare un pacchettino di mentine Leone: sono l’oro, l’incenso e la mirra dell’ Epifania….o la calza della Befana.
Questa notte, dalle inferriate ho spiato il cielo, in attesa…Ma non sono riuscita a cogliere altro se non il tormento dell’elicottero nella consueta perlustrazione sul carcere.
Dunque niente comete per noi, niente streghe liberatrici, solo uno spicchio di luna crescente, in un o spazio vuoto.
………….
Degli antichi saggi venuti dall’Oriente con doni al bambino poverissimo uscito da pochi giorni ad abitare il mondo, ho qui con me le eredi: le intravedo oltre i blindi, le incontro all’ora d’aria; ragazze venute dagli inferni dell’ emigrazione, che si trascinano appresso la loro povertà, più povere e dimenticate di quel bambino, per il quale migliaia di secoli fa quei sapienti si misero in viaggio, guidati dalla stella.
……………..
Mi impegno a pulire la cella, già di per sé pulita, come i luoghi dove nessuno viene e da cui nessuno va…
In realtà, non rinuncio alla speranza che, per un qualche sortilegio, la piccola scopa si animi, diventi testa d’ariete contro sbarre e mura, e riesca ad aprire un varco da cui, in questa mattina dimenticata dell’epifania, una folla di prigionieri riesca a trovare la via di fuga, il volo di liberazione.

Fogli di diario – Sabato 4 gennaio

Oggi è tornato il sole.
E’ mattina. In sezione tutto è silenzio. Qualcuna delle detenute è scesa all’aria, altre si sono rimesse a dormire “nella speranza- mi dicono- di annullare per qualche ora il tempo qui dentro”.
Sono rimasta in cella a leggere, il mio modo di anestetizzare il peso delle catene ed evadere verso altri climi ed altri cieli.
Mentre leggo di Rosa che, dal carcere di Wronke, rivive nel ricordo le passeggiate tra i campi dorati del Sudende, sento oltre i vetri un breve battito d’ali: è un passero volato sul davanzale.
Apro la finestra per sbriciolargli un po’ di pane, molliche infilate ad una ad una tra le maglie della fitta rete.
Dopo qualche esitazione il piccolo messaggero torna; ora va e viene, con lunghi voli, dalla mia finestra ad un albero che intravedo al di là del cortile.
E’ un breve volo il suo, ma carico di possibilità, come di chi è libero di muoversi entro l’orizzonte, per quanto angusto, della propria vita.
Va, viene, a tratti cinguetta, scocca verso di me, che lo osservo da dietro le sbarre, la freccia arguta del suo sguardo, accettando l’umile dono delle mie mani e regalandomi in cambio un saluto che nessun guardiano, nessuna porta blindata potrà impedire.
Sulle ali di quel volo il mio pensiero corre, per contrasto, ai grandi cedri di casa mia, fra i cui rami trovano cibo e protezione, oltre ai passeri, cince, scriccioli, pettirossi….
Riprendo a leggere: “ Rimanere un essere umano è la cosa principale. E questo vuol dire rimanere chiari e sereni, sì sereni malgrado tutto, perché lagnarsi è segno di debolezza. Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita” sulla grande bilancia del destino”, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola.”
Come un messaggio nella bottiglia approdato a questa cella da indicibili lontananze.
L’amore e la lotta hanno una voce antica e sempre nuova, sanno intessere legami che vincono il tempo, capaci di rivivere oltre la sconfitta, più forti della morte.