Risposta ad LTF: Verrà giorno….

nic 001Ad una missiva che ho ricevuto soltanto per conoscenza, anche se in prima persona sono l’oggetto del contendere, oppongo alcune, brevi, sentite considerazioni.

Il senso della comunicazione è chiarissimo: un’ arrogante, maldestra provocazione.

Ltf, annessi e connessi non sono i padroni, ma gli indebiti occupanti ed autori di una devastazione ambientale e sociale che stanno portando avanti a suon di miliardi di denaro pubblico.

Dunque “visitare il sito” non è una gentile concessione di LTF, ma un diritto, anzi un dovere, uno strumento in più per documentarsi e non certo ai fini di “superare l’opposizione al cantiere”, ma per organizzare l’opposizione ad un’opera che è obbligo morale fermare, prima che sia troppo tardi.

A chi ha conosciuto e amato quei luoghi com’erano prima e ne ricorda la stradina tra le vigne, i boschi di betulle, i castagni centenari, percorrerli ora provoca un’invincibile rabbia, non attenuata certo da quattro piantine di viole del pensiero che, dalla soglia di un prefabbricato, guardano smarrite il deserto.

Quanto alla minaccia di “agire in sede civile al fine di ottenere il risarcimento dei danni tutti subiti”, e non solo nei miei confronti (io sola mi sono ammanettata), ma contro tutti gli accompagnatori (evidentemente LTF conosce e applica lo slogan NO TAV “si parte e si torna insieme” ), un’ultima semplice considerazione: è davvero capovolto il mondo in cui i danneggiatori chiedono il risarcimento ai danneggiati.

Tanta arroganza merita una sola risposta: il conflitto senza mediazioni, generoso, collettivo, contro la logica del profitto e del potere, per la liberazione dell’uomo e della natura.

 

NO TAV fino alla vittoria

nico03Si apre il cancello della centrale di Chiomonte davanti alla piccola auto . Per la prima volta, insieme a Marisa, Eleonora, Mario, Ezio, ripercorro la strada vietata da quel giugno del 2011 in cui fu messa in catene la libera repubblica della Maddalena .

Comincia il viaggio, in uno spazio che ci è stato sottratto, ma soprattutto nel tempo, nella memoria viva, che resiste. Un viaggio che fa rabbiosamente male, ma che alimenta le radici di una lotta mai spenta.

Rivedo le vigne immerse nella dolce luce della mattina d’autunno. Dove c’era il presidio d’accoglienza ora stazionano macchine da guerra, garitte e figure in divisa. Qualche vigna è stata abbandonata, l’agriturismo a metà strada appare malinconicamente chiuso.

In alto, tra alberi abbattuti, percorsi stradali cambiati, nuove reti e cancelli, si misura ancor meglio il degrado, la militarizzazione che avanza.

Ma ecco il piazzale della Maddalena, la cantina sociale ormai inaccessibile, il museo in stato d’abbandono : grandi macchie di umidità che invadono la facciata, infissi scrostati, incuria totale. Cerco invano il grande rosaio, la selva profumata di rose rosse che ci accoglieva, fino a quattro anni fa, e parlava di amore appassionato, di resistente bellezza. Sono scomparsi, sostituiti da reti e muri, i grandi cespugli di lavanda il cui profumo riempiva le notti della libera repubblica. Squallore, soldati, mezzi militari posteggiati sul retro, sopra il piccolo cimitero neolitico.

E dov’è la barricata Stalingrado? Ora si criminalizza in tribunale quell’alba epica, nella quale le figlie e i figli della libera repubblica si prepararono a resistere contro l’esercito di luci blu avanzanti dall’autostrada. Allora nel cielo dell’alba splendeva l’ultima stella del mattino. Contro le truppe infinite che sbucavano dalla galleria autostradale e avanzavano sul viadotto, noi avemmo chiaro il senso di quanto fosse superiore al loro apparato bellico la forza della nostra fratellanza, l’invincibile, commovente risorsa che ancora dura e ci dà vita, anche nei momenti più amari.

Ora sotto di noi si stende il cantiere: vi accediamo scortati, dopo la vestizione con casco, giubbotto fosforescente, stivaloni ferrati, mascherina contro le polveri e tappi antirumore.

Scendiamo in mezzo al marasma di edifici, pedane, montacarichi, silos, macchinari, vasconi, blindati, cemento mascherato di vernici verdi, bacini di acque torbide, riflettori, rotaie, cumuli di detriti: una realtà che di solito vediamo da lontano, oltre i muri, dall’alto dei nostri presidi resistenti, di cui si scorgono le bandiere e ci giunge l’ incoraggiamento di quanti sono venuti a condividere questa nostra esperienza di lotta.

Ancora ricordi: qui si dipanava, tra faggi e betulle , la vecchia stradina verso Giaglione. Ed ecco il prato dove, con una giornata di festa popolare, erano stati messi a dimora migliaia di piccoli arbusti, ecco il pilone dell’autostrada su cui resiste il nostro murale. Dove ora ci sono blindati, era sottobosco; qui scorreva un ruscello; qui, al posto del capannone-officina e del piazzale d’asfalto, viveva il bosco dei castagni, giganti centenari che vidi estirpare ad uno ad uno in una primavera di nidi infranti, tra la disperazione degli uccelli.

Ma dove sono le casette sugli alberi, i tendoni del campeggio, quel villaggio di Asterix che visse un’ affollatissima estate ?

2014-09-20 10.52.40Resiste la nostra piccola baita, il tetto ingombro di filo spinato, presidiata da figure in grigioverde: “area sotto sequestro, non ci si può avvicinare”; ma mi avvicino lo stesso, mi appoggio a quei muri che mi rispondono, vivi. Dalla finestrella aperta, protetta da grate, rivedo l’interno e provo un tuffo al cuore: tra le sue mura il tempo si è fermato a quel tragico febbraio 2012 dello sgombero e della caduta di Luca dal traliccio. Sul tavolo c’è ancora una bottiglia d’acqua, scatole di bicarbonato, stoviglie; gli scaffali ancora pieni di vasetti e provviste di cibo, immagazzinate per una resistenza che avevamo immaginato lunghissima. Sulle pareti disegni di bambini, un calendario, fogli ingialliti, la stufetta allora sempre incandescente, ma non abbastanza per vincere il freddo delle notti stellate di Clarea. Di fianco alla piccola baita resiste un magro ciliegio, precario superstite del mare verde che si stendeva lungo il pendìo e diventava bosco di betulle, là dove ora si apre la bocca del tunnel.

Quella bocca ci inghiotte, sul trenino che ci porta nel ventre dell’antica frana, lungo il chilometro di galleria in fondo a cui si acquatta la trivella.

“ Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente…” i versi danteschi mi martellano in testa mentre procediamo tra sbalzi e rumori in “quell’aria sanza tempo tinta”.

Rfoto0536_001-300x225 L’accompagnatore di Ltf magnifica il lavoro svolto, minimizza i rischi, risponde alle domande tecnicamente ferrate di Mario; ma dicono altro lo squallore del luogo, l’estraneità triste degli sparuti operai (non più di quattro) che intravvediamo lungo il percorso, le fenditure della roccia inchiavardata, l’acqua che a un certo punto gocciola dalla volta e scorre sotto i nostri piedi in un fossatello di acqua limpida: il sangue della terra svenata. La “talpa Gea” non sta lavorando; percorriamo a piedi parte dei suoi 200 metri, essenzialmente una pedana metallica su cui stanno armadietti, quadri elettrici, rotaie, tubi di ogni dimensione, il tutto pieno di polvere e di ruggine precoce. Non vediamo la grande testa della trivella.

Il sopralluogo è terminato, il trenino riparte all’indietro. Ritroviamo il piazzale, lo squallore del deserto armato.

Guardo verso le montagne, i boschi che si stendono in alto, lungo la Clarea; vedo, sopra il cantiere, il giardino NO TAV : il piccolo prato sembra di velluto fiorito, sventolano le bandiere, sorridono i volti cari di compagne e compagni con cui condividiamo vita e lotta.

Questa giornata non può finire nel clima fittizio e vischioso di una visita di cortesia.

Incatenarsi per dire la quotidianità di una popolazione cui è negato diritto e parola, le catene di un lavoro che non è lavoro, di un sistema che si fa devastazione sociale, ambientale, economica, culturale; e denunciare il carcere dei nostri figli, la militarizzazione delle nostre vite.

A questo punto l’atmosfera di falsa cortesia va in pezzi, la repressione ritorna repressione, i cortesi funzionari parlano con la voce del tribunale, spuntano le telecamere dell’inquisizione, partono gli insulti massmediatici dei pennivendoli di regime.

Ma più forte delle loro minacce è la canzone NO TAV che giunge di lontano e porta l’eco di tante lotte, da tante parti del mondo.

Mi sento libera e felice, sicura che presto vinceremo.

I popoli in rivolta scrivono la storia. NO TAV fino alla vittoria.

Tullio.

Tullio (1)Tullio. Se ne è andato di notte, al termine di una sofferenza vissuta con la coraggiosa semplicità e la dignità di sempre: a lui si addicono le parole che Guccini dedica all’emigrante Amerigo: “…non era il tipo d’uomo che si perde in nostalgie di ricchi; è andò per la sua strada senza sforzo”.

Tullio fu emigrante, da bambino, in Argentina; poi tornò in Italia e continuò il viaggio dalla Liguria a Torino alla Valle di Susa, a Meana, dove fu carissimo amico di Raul e di altri compagni che ci hanno lasciati..

A Bussoleno, si trasferì nei primi anni ottanta: da allora, con un caffè preso insieme al bar di Pietro in via Fontan, ebbe inizio la nostra lunga amicizia e l’impegno comune.

Tullio, Ileana, Luca piccolissimo, Sara neonata; la nascita del centro Meyer-Vighetti, la scuola di italiano per lavoratori migranti, la militanza al circolo di Rifondazione Comunista di Bussoleno, gli albori della lotta contro il TAV che vide Tullio sempre presente, con la sua consapevolezza di operaio e comunista, nemico delle falsità e dei compromessi, irriducibile contro gli sfruttatori ed i prepotenti almeno quanto era dolce e buono con i deboli e gli sfruttati.

I ricordi premono, troppi per narrarli tutti.

Tullio in prima fila a reggere con fierezza lo striscione del Comitato di lotta popolare nella prima manifestazione NO TAV del 2000

Tullio arrivato in Ape davanti alla caserma dei carabinieri di Susa, dove avevano portato Luca accusato di scritte NO TAV.

Tullio ai presidi con sole, vento, pioggia, neve nell’indimenticabile 2005.

Tullio che partecipa ai cori della libera repubblica della Maddalena e lancia contro i poliziotti in assetto antisommossa lo slogan che gli fu sempre caro “El pueblo unido jamàs serà vencido, el pueblo armado jamàs serà matado!”

Tullio che cerca di riparare i ragazzi rifugiatisi nel bar del Vernetto, la notte del 29 febbraio 2012 e per questo viene malmenato dai poliziotti che hanno fatto irruzione nel locale.

Tullio : non lo vedremo più arrivare in Credenza con Arol, adottato in canile, che dopo vari abbandoni aveva trovato da lui casa e affetto. Ora e per sempre ci mancherà il quarto giocatore delle partite di scopone che si protraevano interminabili, senza poste in denaro, per il solo piacere del gioco e dell’intelligenza.

Tullio che, già in ospedale, deve compilare un questionario-anamnesi e ripercorre così la sua vita professionale. “Metti operaio generico vulcanizzatore”: sono i lunghi anni alla fabbrica dell’amianto, la Permafuse. “ Tutti lavori indecenti, tranne forse l’ultimo periodo come badante alla casa di riposo…”.

Nei suoi ultimi giorni d’ospedale fa ancora “il badante” Tullio, per un suo vicino di letto, ultranovantenne, solo.

Tullio che, dopo il blocco degli espropri al Terzo Valico, mi chiede di raccontargli la giornata e gli si accende lo sguardo, riacquista allegria.

Tullio che ieri ha salutato per l’ultima volta, sorridente, a pugno chiuso, i ragazzi che gli parlavano della Clarea, della terra che tornerà bella e libera, della lotta che non si fermerà, mai.

La bandiera NO TAV l’ha voluta portare con sé, segno di un impegno fedele, irriducibile, che va oltre la morte.