Oltre la mia finestra, nel breve orizzonte del cortile,una macchia sul muro.
Il muro ridipinto di fresco è di un giallo solare, luminoso. Ma ad un tratto è ricomparsa una vecchia spellatura, quasi un castone nella compattezza dell’intonaco.
Non è una macchia qualsiasi: a guardarla con attenzione, appare la sagoma di un piccolo cane, un barboncino con tanto di ciuffetto ed orecchie pendule che a tratti sembra ammiccare con occhio arguto.
Guardo e mi sento risucchiata indietro, ad altri tempi, ad altri cortili.
Era grigio il cortile della mia infanzia, incassato tra muraglie; sua unica non trascurabile ricchezza una grande pianta di cachi che in autunno stendeva sul ciottolato un tappeto rosso di foglie e d’inverno alzava al cielo la meraviglia dei suoi frutti d’oro.
Ma per il mio fantasticare quelle pareti senza prospettive, coperte di grandi macchie di umidità, diventavano un libro di avventure, una mondo di presenze misteriose, sulle quali dominava, solenne ed enigmatico, il profilo di un leone.
Ora quel cortile non esiste più, cancellato da una ristrutturazione spietata che ha raso al suolo i vecchi muri per costruire una schiera di autorimesse.
Ed io sono lontana, come lo è quell’infanzia fiduciosa che respirava la vita e sapeva popolarla di favole. Ma il grande leone è tornato a riportarmi, per un attimo, il profumo di quei giorni.
La sovranità non appartiene al popolo.
Tor Cervara. Il nome evoca boschi e campagne, scorci di casali e castelli, sagome di animali in corsa, dolci sguardi di cerbiatti e di agnelli. Forse tutto ciò era vero un tempo, ma oggi questi luoghi non sono altro che degradata periferia, dove si accumulano i rifiutati della città e del mondo.
Su tutto incombe il CIE, o meglio, come specificano i quotidiani,”l’ufficio stranieri più grande d’Italia con un archivio che supera il milione e mezzo di nominativi. È la principale struttura dove vengono svolti il fotosegnalamento e l’identificazione di immigrati clandestini, ma anche di pregiudicati italiani”. Casermone giallastro, inaugurato una decina di anni fa, ma già sordido, asserragliato tra alte reti, cancelli e piazzali d’asfalto.
In questo non-luogo sono stati dirottati i pullman con centoventi compagne e compagni cui è stato impedito di partecipare al corteo del NO Sociale contro l’UE delle banche, del razzismo e della guerra.
Fuori da quelle mura restiamo bloccati a lungo, nel vano tentativo, non solo di accedere all’interno per constatare le condizioni dei fermati, ma di conoscere i motivi dei fermi, spiegazioni che non vengono date neppure alla deputata europea ed all’avvocata che ci accompagnano: un clima di beffardo ed omertoso silenzio che la dice lunga sulla sospensione delle garanzie costituzionali e sulla morte della democrazia nel mondo e in questo nostro paese la cui sovranità dovrebbe “appartenere al popolo” .
Le ore passano lente. Costeggiamo le reti, cercando di vedere almeno da fuori compagne e compagni che, circondati da agenti in assetto antisommossa hanno improvvisato un piccolo corteo interno; affondiamo in cumuli di rifiuti, una vera e propria discarica abusiva di vetri rotti, elettrodomestici sfondati, stracci e rottami edilizi, tra i quali anche il verde della primavera diventa grigio
A sera la strada si rianima: frotte di donne e bambini rientrano al campo room che sta dall’altra parte della strada, di cui si intravedono, dietro una fitta sterpaglia, baracche di lamiere arrugginite, pozzanghere e desolazione.
Carceri all’apparenza diverse, ma nella sostanza uguali, dove si consuma l’esclusione in tutte le sue declinazioni politiche, economiche, sociali
Lo splendore dei palazzi che, protetti da zone rosse (questa volta chiamate blu in omaggio all’UE), ospitano gli uomini delle banche e della guerra e le loro offensive cerimonie, non sono che l’altra faccia di di tali rottamazioni , di tanto, intollerabile sopruso.
Solo a notte, finiti i cortei, una nostra delegazione riesce ad entrare, riabbracciare i fermati, comunicare loro la solidarietà che in queste ore è giunta dai tanti luoghi della lotta e della resistenza. Nonostante tutto, l’indignazione per la violenza subita è temperata dall’ironia di sempre, dalla certezza che, come sempre, si parte e si torna insieme.
Si risale sui pullman che saranno scortati da ingenti forze di polizia oltre i confini di Roma. Qualcuno ha il foglio di via per tre anni, altri per uno. Tutti sono entrati negli schedari identificativi di Tor Cervara con fotografie e impronte digitali.
Una fredda pioggerellina ha preso a battere le strade.
Dai limiti del campo room un gruppetto di bambini guarda in silenzio.
Luna
La giornata che declina verso il tramonto ha un cielo di cobalto, lavato dal vento dei giorni scorsi.
Le montagne, oltre i tetti, grigie di roccia e bianche di neve.
Sono queste ore strane, tiepide come di maggio, ma con gli odori ed i silenzi di fine inverno. L’equivoco della stagione pesa sugli alberi che buttano fuori gemme frettolose, sull’inquietudine degli animali e su quest’angoscia sottile, senza un perché se non l’urgenza di catalogare i ricordi.
Fatto buio, tornerà la luna, grande, malinconica, ma capace di rischiarare la notte e di segnare il cammino.
Neppure il giorno artificiale del cantiere in Clarea riesce a spegnere quel grande volto che veglia sui boschi addormentati, in una notte che sa di primule e di primavera; una notte in cui a resistere è la vita testarda dei figli di questa terra mai arresa.