In Clarea, con la Palestina nel cuore

DSC02328Il fuoco si fa focolare, quando è acceso per scaldare una notte di resistenza collettiva, assalita da riflettori e figure armate. E i boschi sono minacce impenetrabili per chi non li conosce e non li ama, ma diventano rifugio sicuro per coloro che li percorrono con passo amico e cuore generoso.

La Clarea, questa notte, torna ad avere la voce che il fragore del cantiere ha cancellato: le sue acque, refrattarie al frastuono delle macchine e all’aggressione dei riflettori, rispondono unicamente alla piccola comunità accampata dalla parte del ponte dove sostano zingari felici, giocano animali, risplendono costellazioni. L’altra parte, cui fa da prima fila un drappello in assetto antisommossa con lacrimogeni, telecamere e mezzi da guerra, sembra davvero lontana anni luce, con i suoi lampeggianti blu, le torri faro, i piazzali intasati di macchinari, la grande fresa che persiste a mordere una frana vicina al punto di crollo.

I grandi massi su cui sostiamo, levigati dalle acque dei millenni, ci offrono per il sonno di questa notte imprevedibili sinuosità, morbide conche.

Le ore passano lente, tra canzoni e giri di genziana e genepy. A un certo punto arrivano un pentolone di pasta mandata dall’altro presidio, dolci e thermos di caffè.

Sopra di noi il cielo cammina, si alza il vento che precede l’alba.

Fa freddo e la bandiera della Palestina, una delle tante che sventolavano nella marcia accanto alle bandiere NO TAV, diventa un provvido mantello, sotto cui rannicchiarmi, presso il fuoco; su di un suo lembo si è accoccolata Tofì, dolce cagnolina che per tutta la sera, irriducibile ai divieti, ha circolato liberamente, dentro e fuori le barriere, con l’allegra libertà della natura.

La mattina sorge radiosa. Si spengono le torri faro.

Saluti di chi parte e di chi arriva.

Immobile sul ponte, sta l’ esistenza alienata , fatta di caschi, scudi, divise, un insieme così assurdo, così fuori luogo nel sole che si fa alto, nel frinire delle cicale che scatta inaspettato e ci riporta alle vacanze estive di lontanissime infanzie.

Lego sullo zaino la bandiera della Palestina, in modo che danzi alla brezza, lungo la via del ritorno. So che il mio gesto non servirà certo ad attenuare l’orrore delle morti bambine, di quell’ingiustizia che dura da settant’anni nel silenzio assordante del mondo “democratico”. Ma è bello immaginare il prodigio di una sintonia misteriosa, l’improvvisa percezione che non si è soli, che la liberazione è possibile e la dolcezza della vita un diritto di tutti, inalienabile, più forte delle superbe certezze di chi si crede padrone della Terra.

Da Genova, all’Altra Europa

carlo_viveUomini e topi, due grossi topi intenti a rodere un pezzo di pane e, poco lontano, un gruppetto di uomini, seduti a terra, a ridosso di antichi ruderi, a ripararsi dal solleone, abulici, come chi ha rinunciato anche all’illusione e si porta addosso la propria storia come un vestito liso. Intorno, una fiumana indifferente di turisti , di viaggiatori frettolosi.

Ecco l’ultima immagine che mi torna in mente di una lunga giornata romana, un pugno nello stomaco prima di farmi inghiottire dalla stazione Termini, anch’io fiondata verso un ahimè costosissimo Freccia Rossa che sta per partire.

Vi parrà questo un modo singolare e forse un po’ provocatorio da parte mia, di inviarvi il mio saluto , oggi che non sono con voi, perché ho scelto di andare a Genova, per ricordare Carlo ed i giorni del ControG8, che sembrano così irrimediabilmente lontani, anche se sono passati soltanto tredici anni.

Eppure dura e pesa quella sensazione che ci portiamo dentro, di speranza violentata ; ancora accende ribellione quel crogiolo di storie, età, esperienze, provenienze diverse, accorse a Genova per assediare i palazzi dove i signori della guerra e della finanza si erano riuniti a sancire i loro sporchi giochi di dominio globale. Striscioni, bandiere, canzoni, slogan, milioni di passi nei cortei gridavano un NO unanime e irriducibile a quel modello di vita e di futuro.

Ora che il potere violento e vendicativo del capitale sembra avere vinto, ora che la guerra e la repressione sono gli strumenti quotidiani contro chi non si adegua e lotta ancora, sappiamo quanto sia non solo possibile, ma indispensabile il mondo diverso che diede forza e voce a quei giovani liberi e generosi e finì colpito a morte insieme a Carlo.

Se avremo ben chiaro che lo sfruttamento, la disuguaglianza , la devastazione ambientale, la guerra del Nord contro il Sud del mondo (non più soltanto dimensione geografica, ma sociale) non sono una stortura del sistema, ma l’essenza del sistema stesso, allora, sgombri di ogni illusione riformistica e concertativa, potremo trovare nel conflitto i nostri compagni di strada….

E scopriremo che non tutti i semi di resistenza si sono persi nella mattanza di quel lontano luglio genovese: essi hanno il volto e le storie dei nostri figli e tornano a germogliare, dentro la precarietà, in nuove istanze di giustizia sociale, nell’amore per la terra, nella rabbia antica che si fa insieme mano solidale e lotta inflessibile.

Al loro fianco potremo costruire davvero non solo l’altra Europa, ma il mondo diverso possibile.

Allora anche chi vive tra le macerie, ridotto ad invisibile, riacquisterà voce e dignità, perché nella lotta nessuno viene lasciato indietro, ognuno è indispensabile, si parte e si torna insieme.

 

 

Dalla parte di Penelope

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La politica politicante saccheggia la mitologia, si appropria del mito di Ulisse, l’eroe crudele in guerra, innamorato dell’avventura che lo perderà, rispetto alla quale gli affetti quotidiani diventeranno un intermezzo dimenticato.

 

Accanto ad Ulisse è riscoperto Telemaco, il figlio che si avventura alla ricerca del padre.Telemaco legittimo erede del regno, del potere insidiato dalla torma dei pretendenti, nobili debosciati, prepotenti nullità.

 

Ma io voglio cantare Penelope, la donna, sposa di colui che, al richiamo delle trombe di guerra, l’ha lasciata, attratto dalle sirene del potere che si rinsalda su morti e devastazioni. Penelope, madre di un figlio cresciuto sul mito eroico del padre lontano, combattente inflessibile…..Ma forse lei, al bambino che voleva sapere, avrà narrato di un padre affettuoso , delicato e generoso, partito a malincuore perché lo imponeva la ragione di stato, malato di nostalgia e affamato di ritorno, non tanto per il ruolo di re, ma per le ragioni del cuore, per amore del figlio, della donna che amava, del vecchio padre, di quell’isola di pietre e vigne che rappresentava la sua culla e il suo ultimo orizzonte.

 

Penelope la resistente, che con l’intelligenza e il cuore dà scacco matto alla mala genìa dei pretendenti, i quali la vogliono come appendice indispensabile al regno che solo la sposa del re può garantire e legittimare.

 

La tela che Penelope tesse di giorno e disfa di notte non è soltanto il pegno di fedeltà al marito assegnatole dalla convenzione (e forse riscattato dall’amore), ma è soprattutto prova del suo spirito di libertà, della consapevolezza di essere donna, persona autonoma, non oggetto di intrallazzi politici e di dominio.
Di Ulisse sappiamo che, dopo il ritorno, lasciò ancora Itaca e andò a morire in un viaggio verso l’ignoto, con un gruppetto di fedeli, irriducibili compagni.

 

Di Penelope nulla più si dice, ma la immagino dolce e tenace, tra nipoti e pronipoti, o solitaria, sulla riva del mare, libera dall’attesa di Ulisse, a scrutare l’orizzonte che va oltre il tempo e le parla di noi delle nostre vite, dei nostri sogni.

 

Ed è suo il messaggio che, dal mare di Itaca fino alla Clarea, ci giunge, con la voce delle acque che vince il fragore del tempo, non intercettabile da sgherri e tribunali, per dirci che un mondo diverso è possibile ed ha la tenera, inflessibile, forte e gentile intelligenza delle donne.