L’antifascismo non si arresta!

Sera. Sono circa le venti. Una serata come tante, tranquilla, un po’ sonnolenta, di quest’inverno che non vuole finire.

Alla Credenza il forno è acceso e Giorgio al lavoro come sempre, a sfornare pizze e battute.

Ma all’improvviso tutto cambia: entrano otto individui, in borghese, due mascherati; c’è anche una donna. Senza qualificarsi né presentare mandati, prendono Giorgio e se lo portano via, così com’è, in maglietta e grembiule: tutto in pochi minuti, resta appena il tempo di allungargli una felpa.

Intanto ad intasare via Fontan si sono materializzati mezzi e uomini armati; anche gli accessi alla via e al centro storico sono presidiati.

Giorgio viene imbucato in un’auto e portato via. Terminata la battuta di caccia, i cacciatori scompaiono, in un lampo, e tutto torna uguale, la strada deserta.

Qualche passante sorpreso entra a domandare che cosa è successo. Sul banco sono rimaste pizze da infornare, la pala abbandonata, una mestolata di conserva.

Piu tardi compare un filmato diffuso dalla polizia di stato: ululi di sirene, una squadretta di uomini neri che spinge su per le scale di un edificio cittadino una figurina bianca, in maglietta e grembiule: Giorgio, il volto serio ma non impaurito, l’unica sembianza umana in mezzo ad una schiera di robot.

Per la Credenza e per chi lo conosce Giorgio è un figlio e un compagno generoso, colpevole di essere antifascista, antirazzista, NO TAV, solidale sempre, vile mai: questa per il potere è la vera, imperdonabile colpa.

Ora Giorgio è in carcere, insieme a Moustafa, un altro compagno arrestato a Piacenza.

In tanti anni di lotta abbiamo sperimentato sulla nostra pelle e sui luoghi di vita e di lavoro la violenza del capitale e degli uomini che lo proteggono, con le armi e con la legge.

Contro i fascismi e i razzismi vecchi e nuovi non servono parole, ma fatti, prima che sia troppo tardi.

La Costituzione nata dall’Antifascismo e dalla Resistenza vieta “ la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma” del partito fascista: siamo dalla parte degli antifascisti che a Piacenza hanno manifestato fedeltà concreta a questo principio.

Vogliamo Giorgio e Moustafa liberi subito.

L’antifascismo non si arresta, si pratica e si rivendica!

Ciao, Giorgio….

Una piccola nottola di ceramica, un komboloi, pagine di diario, tante foto, messaggi sempre più concisi, poi il silenzio e , qualche giorno fa, la notizia che temevo: Giorgio, George Grous, non c’è più.
L’avevo conosciuto nell’estate del 2015, ad Atene, nei giorni torridi del referendum sui trattati UE. Parlava l’italiano perché aveva studiato filosofia a Bologna, per questo si prese cura di me facendomi da accompagnatore e da interprete.
Giorgio era impegnato sul fronte del NO ai memorandum e negli anni precedenti aveva vissuto in prima persona le lotte che espressero nella vittoria del NO referendario l’ultima fiammata.
Nei mesi successivi fu ancora lui a guidarmi per le vie e le assemblee di una città sempre più povera ed annichilita, che aveva contato sul governo di Syriza e si ritrovava senza rete, priva di risorse materiali e morali per una riscossa collettiva.
Fu lui ad accompagnarmi alle mense popolari, all’ambulatorio autogestito dell’Ellinikò per portare i medicinali acquistati con il contributo della solidarietà NO TAV e farmi incontrare le storie dei tanti senza casa, lavoro, assistenza medica, futuro.
Anche Giorgio aveva perso il proprio lavoro di educatore e si manteneva con qualche lavoretto precario come interprete e accompagnatore turistico: povero e dignitoso, viveva la sua precarietà senza piangersi addosso e senza rinunciare all’esercizio di uno spirito lucidamente critico, che non faceva sconti.
Con lo stessa forza ha affrontato la malattia, un tumore che l’ha portato via nel giro di un anno, vittima di una sanità a pezzi, in una Grecia strozzata dall’Europa della troika, in una città dove vengono chiusi gli ospedali pubblici, ma prosperano le cliniche private.
Da metà dicembre Giorgio non rispondeva più ai miei messaggi. Ho saputo solo ora che se ne è andato, il 13 di dicembre. Pochi giorni prima era morto il suo vecchissimo, amato cane Rubi.
Lo rivedo assieme a Rubi, per le vie di Exarchia, tra murales e orti urbani, spazi sociali autogestiti e parchi fioriti di oleandri, dove approdavamo scendendo dai quartieri popolari alle pendici del Licavetto, nei quali stava la sua casa, alta sulla città.
E mi torna in mente il giorno che andammo al Pireo, il suo sguardo rabbuiato di fronte alle banchine del porto, tra profughi accampati nei giardini, bambini che chiedevano la carità e cani abbandonati. Una desolazione senza fine, davanti a cui ci si sentiva piccoli e impotenti: non ci rimase altro che fuggire.
Quarant’anni, troppo presto per morire. Non posso pensare ad Atene senza Giorgio. Con lui se ne va un compagno ed un figlio.
Un abbraccio ai suoi cari, a chi gli ha voluto bene.

Morti annunciate

Tre morti e quarantasei feriti, di cui quattro gravi , per il deragliamento di un treno pendolari sulla linea Cremona-Milano; le prime ore del mattino, sul convoglio studenti e lavoratori.

Non una fatalità, ma l’ennesimo disastro annunciato, il frutto della devastazione della rete ferroviaria italiana che va avanti ormai da quasi trent’anni, prodotto del cosiddetto “piano Necci per la privatizzazione delle ferrovie”, entrato in vigore nei primi anni ‘90, che prevedeva esplicitamente l’abbandono e la soppressione di undici mila kilometri di rete ferroviaria a breve e media percorrenza, contro il potenziamento di cinquemila kilometri compatibili con l’alta velocità.

Effetti immediati di quei provvedimenti fortemente antipopolari furono lo smantellamento dei poli ferroviari e delle officine finalizzate alla manutenzione di locomotori e infrastrutture, la chiusura delle stazioni, il taglio di corse e linee pendolari, la privatizzazione dei contratti di lavoro, l’aumento dei disagi per passeggeri e lavoratori.

Da allora centinaia sono stati i morti per incidenti ferroviari: scontri frontali (quasi la metà delle tratte ferroviarie italiane sono a binario unico), deragliamenti per mancata manutenzione delle linee o del materiale rotabile costituiscono il tragico bilancio di una politica dissennata che punta sulle grandi male opere utili al partito trasversale degli affari e taglia servizi e vivibilità per tutti.

I sei morti di Ciampino, i sette di Caluso, gli otto di Piacenza, gli otto di Messina, i tre di Nuoro, i diciassette di Crevalcore, i trentadue di Viareggio, i nove di Laces, i ventitrè di Corato, i tre di Pioltello e gli altri di Firenze, Solignano, Alessandria, Roccasecca sono l’altra faccia delle devastazioni ambientali, sociali, economiche ,causate dai progetti TAV che hanno flagellato l’intera penisola e che vorrebbero , con scarsissimo successo grazie al movimento NO TAV, devastare la Valle di Susa, in cui vivo e voglio continuare a vivere.

Non è sufficiente compiangere i morti: troppi sepolcri imbiancati in queste ore lo fanno, per pura immagine e convenienza: singolari sono le dichiarazioni del sindaco di Milano, l’uomo dell’ Expo, che stigmatizza l’opera più improbabile, il ponte sullo Stretto, ma nulla dice sull’oceano di denaro pubblico dilapidato in TAV e autostrade.

Per vendicare e prevenire queste morti serve l’indignazione lucida, che non si spegne come un fuoco di paglia, ma si alimenta di conflitti collettivi, con il testardo amore che, lungo le strade dei territori militarizzati, nell’assedio popolare ai cantieri del TAV, davanti ai tribunali che ci vorrebbero divisi e deboli, nella consapevolezza che quello dato non è l’unico dei mondi possibili, ci fa ancora, sempre, partire e tornare insieme.