Da quest’ esperienza una cosa l’ho imparata: che il fine esplicito ed istituzionale del carcere è quello di ridurre all’obbedienza, cieca, contro qualsiasi coscienza critica, ogni autonomia: a questo sono finalizzati lo stravolgimento dei tempi e degli spazi, l’arbitrarietà degli ordini, la sistematica repressione di ogni obiezione, la violenza psicologica e l’umiliazione delle perquisizioni corporali ogni volta che ti muovi, le battiture dei blindi nelle ore più improbabili, le celle buttate all’aria per cercare il nulla assoluto, l’obbligo di domandina scritta al direttore per le cose più ovvie (comprare i gettoni per la lavatrice, ricaricare la scheda telefonica, mandare a casa oggetti o libri….), la chiusura delle celle più volte nella giornata senza un preciso motivo, la prepotenza delle guardiane che negano o concedono a capocchia, il sentir chiamare “Africa”, “india”, “Cina” le tue compagne dalle secondine che ne cancellano volutamente nome e cognome….
Uno degli ultimi interfaccia è stato con quella che ci teneva a sottolineare il suo grado… ” si sente offesa? Da cosa? Parla con me come se fossimo fuori dal carcere…Qui le regole sono diverse….” Le regole sono le loro , rispetto alle quali loro sono tutto e tu non sei niente.
Solo se diventi un utile strumento, poi essere , minimamente, tenuto presente. Nel momento in cui sei pronta a chiamare le guardiane per risolvere un litigio con la tua compagna di cella o non hai problemi a dare informazioni su come si comportano e di che cosa parlano le “attenzionate speciali”, allora sei sulla buona strada,in gara per rientrare nella “società civile”… L’unico carcere accettabile è quello abolito.
Fogli di diario – 31 dicembre 2019
Ultimo giorno dell’anno, primo di carcere.
Mattinata passata tra visite mediche, psicologi ed assistenti sociali. Per come mi guardano, mi sento un marziano. Qualcuno mi chiede perché e fino a quando: sono spiazzati rispetto al cliché del detenuto.
Nel primo pomeriggio decido di fare l’ora d’aria. Ma sono senza cappotto che all’arrivo mi hanno sequestrato (“troppo lungo” è la motivazione). Chiedo un indumento utilizzabile e, dopo qualche insistenza, mi arriva una giacchetta imbottita, “ dal casellario” mi dicono. Poco è meglio di niente, soprattutto perché voglio scendere a provare di persona i luoghi e i racconti di chi in carcere c’è stato prima di me e più a lungo.
L’ora d’aria per le nuove giunte si svolge in un cortile minuscolo, chiuso tra muri e sorvegliato da telecamere. Non si può far altro che camminare in tondo, da sole o con qualcuna che ti si affianca per parlare con te.
La cosa migliore è il poter incontrare le altre donne. Mi guardano con curiosità: ieri sera al TG regionale hanno trasmesso la notizia e qualche immagine del mio arresto. Alcune si avvicinano e mi chiedono il perché della mia decisione: a chi sogna il fine-pena risulta difficile capire per quale ragione qualcuno può scegliere di “finire dentro”. Mi sorprende come bastino poche parole per averle dalla mia parte, molto prima e molto meglio di tanti perplessi, fuori. Ho l’impressione che qui funzioni, prima di tutto, una solidarietà naturale, una simpatia istintiva, forse perché netta è la barriera tra chi è carceriere e chi è carcerato.
Mi chiamano perché ho una visita: i miei avvocati. Che emozione vedere Valentina ed Emanuele!
Mi portano notizie di casa e mi raccontano delle mobilitazioni partite immediatamente, in tutto il paese e più lontano, dai luoghi e dalle realtà più impensabili….……………..
Qui dentro salta la nozione non solo dello spazio, ma anche del tempo. La cena è alle cinque del pomeriggio, poi comincia la notte del carcere. Quella dei nuovi giunti è una “sezione chiusa”: ciò vuol dire che te ne stai chiuso in cella diciotto ore su ventiquattro….
Vedo scendere il buio stando alla finestrella del mio cubicolo, blindata da reti e sbarre. Dai serramenti di ferro arrivano gelidi spifferi, nonostante la rudimentale imbottitura di giornali.
Sotto di me, oltre il rettangolo del cortile, c’è la panetteria interna, dove lavorano detenuti. Ma qui non mi giunge odore di pane… Com’è lontano il mio paese, via Fontan invasa dalla fragranza del pane appena sfornato, quando a ora tarda, chiusa la Credenza o terminata qualche riunione, ce ne tornavamo a casa, accarezzati dall’aroma antico……
Nello spiazzo sottostante avanzano guardinghi due grossi gatti, esemplari di una colonia felina che la mia compagna mi dice numerosa. Penso ai miei piccoli, quelli di casa e quelli acquisiti che, a quest’ora, aspettando il cibo, si chiederanno che ne è di me…. No, non devo lasciarmi vincere dalle insidie della malinconia. In fondo anche l’anno che sta per iniziare passerà..……………..
Deve essere mezzanotte: qui non esistono orologi perché, evidentemente, anche la percezione del tempo che scandiva la vita di prima è un riferimento negato a chi sta in carcere: così lo spaesamento, il taglio col mondo fuori è totale.
Ma a dirci che è mezzanotte è l’allegro scoppiettìo dei fuochi d’artificio, luminosi, multicolori, tutto intorno al carcere: un messaggio di solidarietà per noi che il capodanno non lo festeggeremo.
Ecco un’esplosione di stelle rosse…. Che il nuovo anno sia di liberazione… dalle catene…., dalle ingiustizie…., dalle grandi male opere…., dalla rinuncia alle lotte collettive che mette deboli contro deboli…., dalla precarietà che avvelena questo nostro tempo.
Nelle celle c’è movimento, tutte le detenute sono alle finestre; non bastano reti e sbarre a separarci dall’aria aperta, dal vento di valle che entra col freddo della notte e ci porta, di lontano, voci, canti di saluto.
Buon anno, con rabbia e affetto.
Storie
Le mie compagne mi raccontano di sé o di altre storie. Dal buio dell’umiliazione non emerge mai una vicenda completa: il silenzio è anche un modo per proteggersi, salvaguardare la propria dignità rispetto all’annullamento della persona che il carcere, sistematicamente, persegue.
La perquisizione corporale che mi hanno fatto all’ingresso, pur così umiliante, è “ all’acqua di rose”, c’è chi ha subito di peggio: l’ispezione anale, consueta, ma particolarmente umiliane per chi è sospettato di avere in pancia ovuli di droga.
Mi si raccontano di una ragazza che, dall’Africa, ha girato l’Europa, poverissima corriera di ovuli di cocaina per i party dei ricchi intoccabili. Ha lasciato a casa la madre e le sorelle: a loro provvede lei, con quella pancia piena di ovuli… Arrestata, è sola: avvocato d’ufficio, scomparsi e sicuri nella loro impunità i ricchi sfruttatori. Le resta il carcere, la magra consolazione dei canti ad un dio disattento, qualche mese da inserviente scopina, la tenacia di tenersi pulita tra muri che trasudano sporcizia. I quattro soldi che ricava dai lavoretti carcerari (pochi, sfruttati, ma molto ambiti da chi non ha niente), detratte le spese , mensilmente conteggiate, per il mantenimento in carcere, li manda alla famiglia, in qualche villaggio africano, di cui, a volte, racconta. Un suo sorriso gioioso a chi ha scelto come “zia”, un suo festoso saluto nei momenti bui sono un regalo impagabile….Bisogna resistere e raccontare.