Oggi è tornato il sole.
E’ mattina. In sezione tutto è silenzio. Qualcuna delle detenute è scesa all’aria, altre si sono rimesse a dormire “nella speranza- mi dicono- di annullare per qualche ora il tempo qui dentro”.
Sono rimasta in cella a leggere, il mio modo di anestetizzare il peso delle catene ed evadere verso altri climi ed altri cieli.
Mentre leggo di Rosa che, dal carcere di Wronke, rivive nel ricordo le passeggiate tra i campi dorati del Sudende, sento oltre i vetri un breve battito d’ali: è un passero volato sul davanzale.
Apro la finestra per sbriciolargli un po’ di pane, molliche infilate ad una ad una tra le maglie della fitta rete.
Dopo qualche esitazione il piccolo messaggero torna; ora va e viene, con lunghi voli, dalla mia finestra ad un albero che intravedo al di là del cortile.
E’ un breve volo il suo, ma carico di possibilità, come di chi è libero di muoversi entro l’orizzonte, per quanto angusto, della propria vita.
Va, viene, a tratti cinguetta, scocca verso di me, che lo osservo da dietro le sbarre, la freccia arguta del suo sguardo, accettando l’umile dono delle mie mani e regalandomi in cambio un saluto che nessun guardiano, nessuna porta blindata potrà impedire.
Sulle ali di quel volo il mio pensiero corre, per contrasto, ai grandi cedri di casa mia, fra i cui rami trovano cibo e protezione, oltre ai passeri, cince, scriccioli, pettirossi….
Riprendo a leggere: “ Rimanere un essere umano è la cosa principale. E questo vuol dire rimanere chiari e sereni, sì sereni malgrado tutto, perché lagnarsi è segno di debolezza. Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita” sulla grande bilancia del destino”, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola.”
Come un messaggio nella bottiglia approdato a questa cella da indicibili lontananze.
L’amore e la lotta hanno una voce antica e sempre nuova, sanno intessere legami che vincono il tempo, capaci di rivivere oltre la sconfitta, più forti della morte.
Fogli di diario – 3 gennaio 2020
Giornata grigia, oggi. Sta spuntando un’alba tardiva, fumosa: sono i colori della vita, qui.
Nel cortile della prigione si muovono figure in divisa, agenti che prendono servizio. Camminano tranquillamente, come chi va al lavoro quotidiano; l’anomalia sta nel fatto che la materia prima manipolata in questa enorme fabbrica siamo noi, corpi e cervelli rinchiusi, esistenze sospese.
Arrivano due cellulari. Viene scaricata una persona e i suoi bagagli: “qualcuno proveniente da altre carceri” mi spiega la mia compagna di cella.
Il “nuovo giunto” è scortato ai blocchi maschili.
Uno dei cellulari resta nel cortile, evidentemente in attesa. Ricordo di aver visto più volte catafalchi neri come questo, in corsa sulle autostrade o in sosta dietro il tribunale, e ogni volta con un senso di raccapriccio, una stretta al cuore…
Ora è il turno dei furgoni che vengono a prelevare il pane dal laboratorio interno al carcere o a portare da fuori derrate alimentari. Fa uno strano effetto vedere quell’andirivieni che parla di tranquilla quotidianità, della normalità di un giorno feriale qui dove tutto è eccezione, intoppo, divieto….
………………
Mentre scendevo al “passeggio”, mi ha chiamata l’ “ufficio comando” per consegnarmi telegrammi, tanti, affettuosi, da vicino e da lontano. Me li sono portati in cortile per leggerli all’aria libera, ma ho finito col rimetterli in tasca, frenata da una specie di pudore: le altre detenute guardavano quel pacco di messaggi con una meraviglia velata di tristezza. Una ragazza mi ha detto che a lei non scrive mai nessuno…..
…………….
E’ di nuovo notte. Non so valutare l’ora. Con la cena alle 17 si perde la nozione del tempo.
In questo momento sono sola nel cubicolo di due metri per quattro che divido con un’altra detenuta. In realtà lo spazio calpestabile è minimo: per una buona metà la cella è occupata da due letti a castello, a cui si aggiungono due armadietti, due sgabelli, un tavolino a muro.
L’annesso stanzino con lavabo (acqua gelida), water e bidet è ancor più angusto e funge anche da ripostiglio, cucina , dispensa.
Le finestre fungono anche da frigorifero: tra sbarre e reti si infila tutto ciò che è deperibile (d’estate la roba viene conservata nel lavandino, in contenitori di plastica immersi nell’acqua corrente).
In sezione sono cessate le grida e i richiami che durante la giornata sono l’unico modo di comunicare da cella a cella. Anche gli ordini o le chiamate delle secondine avvengono a suon di urla: nei muri delle celle esiste traccia di citofoni disattivati da tempi immemorabili e ricoperti di intonaco.
.Al chiasso è subentrato il brusio quasi domestico dell’”ora di socialità”: le detenute per un’ora possono stare nella “saletta collettiva” o scegliere di “andare in visita” in un’altra cella: una socialità sotto chiave, perché tutti gli spazi sono chiusi e d è fatto divieto di circolare da cella a cella o di passeggiare per il corridoio.
Anche la mia compagna è andata “a prendere il caffè” nella cella di fronte.
Spengo la TV che ronza tutto il giorno sulle ali di di soap-opere, show, spot pubblicitari (le banalità con cui si è costrette a convivere per riempire le ore vuote, fanno parte della pena, dell’insensatezza del carcere).
Ora posso riordinare i pensieri, gustare il dono della malinconia e del silenzio….
Fogli di diario – 2 gennaio 2020
La cella dove ora vivo è rivolta ad oriente.
Vedo alzarsi un’alba tutta rossa, annuncio di una giornata di sole e
cieli chiari. Il cielo, a poco a poco, trascolora in una luce che
cresce, si fa gialla e poi di un tenero candore che, nel freddo di
gennaio, sa già di primavera.
Penso all’ombra fitta degli alti cedri
di casa mia. Il mattino si impiglia nei loro rami e bussa delicatamente
alle finestre, accarezza i miei gatti addormentati sul letto.
Comincia per me un’altra giornata di assenza dalla quotidianità della vita.