Attesa

ferrosTorino, piazzale antistante il carcere delle Vallette, venerdì 10 febbraio, ore 20. Insieme a Gino, sto aspettando l’uscita di Luca, che ritornerà in Valle, ai domiciliari.
Da tre giorni, per sentenza del tribunale, Luca dovrebbe essere tornato da Gino suo paterno ospite.Ma è ancora qui, tra alte mura. Oggi però dovrebbe essere la volta buona.
Il tempo non passa mai davanti a questi cancelli invalicabili, sotto il perenne giorno dei riflettori, nell’attesa che si fa sgomento e pesa in cuore come un macigno. Ad intervalli arrivano e partono vuoti pullman metropolitani.
Ma ecco che, ad un certo punto arrivano alcune auto e si mettono in sosta di fianco a noi. Pensiamo ad altri parenti in attesa di detenuti in uscita, ma dal loro fare mondano, dai saluti allegri che si scambiano, fanno piuttosto pensare ad amici che si incontrano per una cena al ristorante…
E’ così è in effetti: sono clienti della Liberamensa, il nuovo progetto/ristorante che funziona all’interno del carcere, con l’impiego di cuochi e camerieri detenuti, nelle serate di venerdì e sabato, previa prenotazione ed esibizione dei documenti per avere accesso ad una sala completamente ristrutturata ed elegantemente confortevole.
Mentre i clienti sfilano davanti ai secondini della portineria e scompaiono in una bussola evidentemente munita di metaldetector, penso con rabbia ai poveri, spesso immangiabili pasti dei detenuti, ai corridoi scrostati, alle celle piene di spifferi, alle docce dai muri coperti di muffa, alla vita grama di chi non riceve cibo dall’esterno o denaro per la spesina.
I fiori all’occhiello dei progetti di recupero carcerario si rivelano così per quello che sono: foglie di fico inadeguate a nascondere l’orrore di una quotidianità che non recupera ma devasta.
Spersone_testimonianze_poesieono ormai le 21; il piazzale è tornato deserto, fatta eccezione per altre due persone che , come noi, aspettano una scarcerazione.
Ma si apre finalmente il pesante cancello d’ingresso: ecco Luca insieme ad altri quattro poco più che ragazzi. Si guardano intorno come spaesati. Chi non è atteso si avvia solo verso la fermata dei mezzi pubblici. Ma, prima di ripartire ognuno verso il proprio destino, si abbracciano augurandosi buona fortuna e salutano anche noi che stiamo aspettando.
Il macigno che mi pesava in cuore si scioglie così in commozione: in questo non-luogo di silenzio irreale, dove migliaia di persone sono costrette ad una non-vita fra mura, sbarre e cemento, davanti all’ennesima notte di un tempo immobile, quei semplici gesti fraterni, quel saluto gentile dicono che il sogno non è finito, che la forza del restare umani saprà vincere anche l’ottusa crudeltà del potere.