Ai bambini, a quanti hanno sogni.

Valle_di_SusaIn passato era un uomo, uno come gli altri, soltanto più ossessionato dalla paura della morte. vedeva con angoscia lo scorrere degli anni, il declinare del giorno, la vicenda delle stagioni. Invidiava gli dei che immaginava eterni ed invincibili nella loro immobile mole senza tempo.

Perciò volle farsi dio, e si volle flagello sterminatore capace di distruggere la vita, di abolire la natura e con essa ogni essere che avesse palpiti e sentimenti, calore e amore.
Il suo cuore divenne un blocco di dura pietra, il suo corpo macchina corrusca e gigantesca, incapace di desideri che non fossero l’inesausta brama di dominio e di distruzione.

Fu un gigante d’acciaio.

Ma in quell’immane mastodonte un elemento rimase imperfetto: i piedi, ritornati terracotta, la stessa di cui erano state foggiate tutte le creature prima del soffio che le fece vive, capaci di movimento, pensiero e passione, destinate a tornare terra, sì, ma dopo aver provato la gioia e il dolore, la meraviglia dell’esistenza.
E partì per la guerra alla natura, capeggiando un esercito di macchine: rulli compressori, frese, ruspe, trivelle, idrovore e armi, tante armi, per cancellare chi avesse osato in qualche modo resistere, difendersi, ribellarsi; e forzieri d’oro, cibo quotidiano per corrompere le menti e annichilire i cuori.
Così altri uomini lo seguirono, trasformati in robot docili ai suoi comandi, servi meccanici da usare e gettare.
Davanti all’incedere dell’esercito mostruoso scomparivano prati, villaggi, foreste, si inabissavano le acque, si spianavano le montagne, ogni luogo diventava deserto di ferro, asfalto e cemento, su cui sorgevano spettrali grattacieli e ciminiere, carceri e macelli.
L’avanzata dell’esercito sterminatore sembrava irresistibile. A cadere sotto i colpi, insieme alle cose belle della vita, erano anche i ricordi, i saperi, i legami, la dignità.
Il senso della sconfitta devastava il cuore, penetrava nel cervello, si faceva gelo dell’inerzia e fatalismo disperato.

Il gigante con le sue armate devastatrici, giunse infine in una valle posta tra alte catene di monti. Puntò le telecamere dei suoi occhi sul fondovalle, risalì i versanti dove, tra fitte boscaglie, si intravedevano radure verdeggianti e minuscoli villaggi; fissò le montagne, giganti innevati con il capo tra le nuvole, le cascate spumeggianti, le vene multicolori di roccia; e il suo cuore di pietra ebbe un sussulto: l’antica roccia parlava ancora, con voce di lontano spavento. Ma fu un’impressione subito spenta: un lungo nastro bianco che occupava il fondovalle contendendolo al fiume, fu per il gigante una garanzia di vittoria: ecco il punto di penetrazione, la prova che in passato la valle era già stata occupata e parzialmente sconfitta: sarebbe stata una breve passeggiata, un successo garantito.
Il frastuono delle truppe in marcia rimbombava amplificato dalle gole dei monti, i luoghi come sempre si spopolavano. Ma intorno si percepiva un’aria strana, un’indecifrabile sensazione di nuova vitalità.

Quei cieli stellati dove le costellazioni camminavano con il ritmo delle stagioni, e le albe e i tramonti che tornavano ogni giorno a segnare il trascorrere del tempo, costituivano per il gigante la negazione stessa dell’immortalità che credeva di avere conquistato.

In fretta, bisognava fare in fretta, spianare quei luoghi troppo insidiosi e andare oltre.
La valle principale si restringeva in una valletta. In quel luogo le stirpi degli animali selvatici, cervi, volpi, cinghiali, caprioli, convivevano con gli animali domestici; i cuccioli di lupo avevano lo stesso  guardo tenero e indifeso dei piccoli di pecore e capre. A volte comparivano in cielo la grande aquila che aveva il nido in alto tra le rocce o il falco dalla picchiata fulminea, e allora tacevano gli uccelli della selva, le chiocce nascondevano i pulcini sotto le ali.
Di notte il bosco si animava di passi furtivi, brillavano nel buio gli occhi degli uccelli notturni.
Gli esseri umani vivevano di pastorizia, di coltivi, di vigna. Le acque del torrente dissetavano la terra e muovevano la ruota del mulino, che macinava le messi coltivate in brevi radure. Il bosco dava a piene mani bellezza, frutti, legna per il focolare.
Tutto intorno si stendeva l’antica selva, querce, pini, argentee betulle, castagni centenari, faggi dritti e possenti; i ciliegi selvatici erano a primavera candida nuvola e in autunno rossa fiammata.
Sembrava quella l’ultima stanza dei mortali. Terra sopravvissuta ad una frana millenaria, abitata da infinite generazioni, che non avevano abbandonato gli insediamenti aviti, ricchi di sole e di acque, e conducevano la propria vita con saggezza, senza superbia e senza paura.
Le quinte degli alberi avevano mascherato e quasi inglobato l’unico corpo estraneo, le colonne di ferro e cemento che si scorgevano in disparte, testimonianza di una precedente aggressione, all’apparenza solide, ma, in realtà, già intaccate dalla ruggine del tempo, tramate da crepe e invase da rampicanti.
Li il gigante volle stabilire il suo quartier generale.
I primi a sentire il rumore dell’esercito avanzante furono gli animali: gli uccelli si alzarono in volo e scorsero in lontananza il nuvolone di piombo che accompagnava la marcia degli invasori.
Tutti si misero all’erta: gli alberi immobili presagivano il colpo della scure, il torrente si increspava sotto il vento che portava lontano le voci e i profumi della selva. Le stelle ammiccavano dall’alto.
Allora i dolci occhi degli animali di bosco e di mandria si accesero di luci sagge e determinate: chiamare anche gli uomini, resistere; insieme, si poteva, si doveva resistere. Nessuno fuggì, anzi giunsero rinforzi anche dalle valli vicine.
Quando, all’alba arrivarono gli invasori, si videro davanti un muro vivente: uomini, donne, bambini, vecchi canuti, e con loro animali, alberi, rocce, e lo scroscio delle acque.
L’ira del gigante fu grande: sguinzagliò macchine e armati, che picchiarono, avvelenarono, sgominarono le povere difese; si insediarono e cominciò la devastazione.
I primi a cadere furono i castagni centenari, sradicati perché di loro non restasse traccia. Giacquero a terra in un’ecatombe di nidi. E furono sterminati i pini, le betulle, i ciliegi carichi di frutti, i faggi maestosi. Poi toccò ai prati, alle generazioni di erbe e fiori, alle rocce che ostacolavano il passo ai conquistatori e offrivano riparo ai difensori.
Dove era vita fu deserto d’asfalto cinto da reti e muraglie.
Venne imprigionato il torrente e agli animali si negò l’accesso all’acqua. E fu abolita la notte, con la sua fiorita di stelle, sostituita dall’eterno giorno dei riflettori.
Figure armate presidiavano i recinti, erano sguinzagliate fuori dai cancelli, contro la testarda resistenza che non cedeva.
Passarono mesi e anni. Le nevi degli inverni divennero poltiglia nerastra sul cantiere; la brezza delle primavere si corruppe dell’odore di solventi; l’estate fu recinti arroventati e l’autunno non portò castagne né funghi profumati.
L’occupazione durava e sembrava infinita. Ma quando ruspe e trivelle intaccarono il piede dell’antica frana violando il sonno degli antenati e insidiando le caverne dove l’acqua aveva le sue radici profonde, le mammelle primigenie della vita, la risposta della natura si abbattè fulminea. Il cielo d’improvviso si oscurò, si spensero i riflettori, la terra fu scossa a fondo e si alzò il vento freddo dei ghiacciai. E cominciò a cadere una pioggia battente che ingrossò rigagnoli e forre; questi corsero al torrente.
Il torrente si fece fiume infuriato.
Nulla potevano contro tanta furia la tecnologia raffinata e boriosa, la violenza delle armi, la crudeltà insensibile degli armati.
Il gigante si muoveva pesante e sempre più inquieto nel suo dominio non più controllabile.
L’ inquietudine divenne terrore quando egli vide le acque avanzare, le sue macchine e i suoi automi inceppati e travolti come fuscelli.
La vita, era la vita che irrompeva e si portava via la superba illusione di potenza e immortalità.
Fu a questo punto che Il cuore di pietra si mosse, in sintonia con i massi che rotolavano dalla montagna sul cantiere; e i piedi d’argilla ritornarono terra viva. Il colosso d’acciaio cadde nel fiume e fu portato via, con le macerie di un dominio che aveva immaginato eterno.

Allora cessò la tempesta, i nuvoloni se ne andarono sulle ali del vento, le acque si ritirarono nel loro alveo naturale. Una ritrovata quiete abbracciò il mondo.
L’alba dalle dita di rosa trovò la valle in festa.
Animali e uomini si incontrarono sulle rive del torrente che scorreva allegro.

La terra rimarginava le proprie ferite; dove era stato asfalto rispuntavano virgulti, erba e fiori novelli. Gli uccelli alzatisi in volo ritornarono con la lieta novella della terra libera e felice.
La ruota del mulino riprese frusciando il suo eterno girare e ancora racconta, a chi la sa ascoltare, la storia dell’uomo che per paura della morte, volle annullare la vita, portò attraverso il mondo morte e desolazione e giace per sempre, vuota armatura, da qualche parte in fondo al mare. Ma soprattutto risuona, con voce sempre uguale, la canzone dell’acqua, che narra l’antica alleanza degli esseri viventi i quali insieme seppero resistere, e salvare questi luoghi dove ancora si succedono, nella perenne vicenda di vita e di morte, le generazioni.

E questa è la vera eternità.