Lasciamo Bussoleno e la festa in strada che parla di Resistenza passata e presente: ci attende un’altra piazza dove si parlerà di un’ unione europea nata male e andata avanti peggio, un’Europa da distruggere, per costruire l’altra Europa , quella della pace nella giustizia sociale.
Ci accoglie una regione di risaie che si stende dal Vercellese, al Novarese, fin sotto le colline dell’Oltrepo. Terra nera e acque: E’ cominciato l’allagamento dei terreni; per il momento sono grandi pozze, ma presto sarà un mare.
Vigevano, la città che conobbi nei romanzi di Lucio Mastronardi, ci attende in una piazza del sabato pomeriggio, splendidamente rinascimentale, gremita di gente a passeggio, di caffè affollati.
I compagni hanno preparato un palco con striscioni e bandiere rosse al vento, tra cui spicca la scritta NO TAV, insieme all’arcobaleno della pace e alla bandiera palestinese. Sul fondo il ritratto di Hugo Chavez, cui è intitolato il Circolo PRC.
Dal palco si alzano nell’aria festiva le note delle canzoni popolari, canti sempre attuali che raccontano le trincee maledette, la dura vita delle mondine, lo sberleffo ribelle di chi non si arrende.
Qui batte il cuore operaio e contadino di una cultura che resiste alla becera grettezza leghista e nulla ha da spartire con l’opportunismo di un centrosinistra transgenico.
Perché esiste un’altra faccia di quest’apparente serenità e benessere: la delocalizzazione dell’artigianato del cuoio verso continenti dove manodopera e materie prima non costano niente e dove si può inquinare impunemente; una precarietà fatta di fabbrichette che mettono gli operai in cassa integrazione e li richiamano al lavoro solo se accettano di vedersi abbassare la qualifica e lo stipendio.
E che dire di quanto succede nella scuola dell’obbligo, che, secondo la Costituzione, dovrebbe essere gratuita e non discriminatoria? La disparità comincia fin da piccoli. In ossequio al patto di stabilità, il Comune ha negato la mensa scolastica gratuita ai bambini le cui famiglie non possono pagare. Succede cosi che in una scuola elementare esistano differenti locali – mensa: quello al primo piano, pulito, chiaro e arioso, con pasti caldi per i paganti; l’altro nel seminterrato, umido e sporco, per gli scolari che si portano il pranzo da casa, i poveri, per la maggior parte figli di immigrati.
E’ sera quando ripartiamo. La strada costeggia per un tratto la ferrovia da sempre a binario unico, “con treni scarsi e perennemente in ritardo, croce dei tanti pendolari” racconta chi ci accompagna. Eppure era stata stanziata un’ingente somma per il raddoppio della tratta e l’allargamento del ponte ferroviario; “soldi spariti nel nulla, senza che mai nessuno ne chiedesse conto”.
L’ultima luce si spegne nelle acque morte delle risaie; uccelli acquatici stanno immobili lungo gli argini.
Penso a mia madre che, tredicenne, venne in questi luoghi, la più piccola delle mondine; lei che precocemente conobbe fatica e sfruttamento, la nostalgia di casa, ma anche la solidarietà delle compagne che le davano una mano quando la fatica era troppa.
“Alla mattina appena alzata in risaia mi tocca andar/e tra gli insetti e le zanzare un duro lavoro mi tocca far,/ il capo in piedi con il bastone/ e noi curve a lavorar…”
Le canzoni non parlano solo del passato, ma dell’oggi, di altri poveri, venuti da lontano, con altri volti e storie, ma ugualmente sfruttati.