Diario di viaggio: 17 aprile, La Spezia

discaricapittelliLa Spezia. La natura aveva privilegiato questa parte di mondo: un golfo ridente e ampio, dove il mare viene a rifrangersi senza rabbia; e tutto intorno colline, terra da ulivi e limoni; una costa che si alza dolcemente, fino ai boschi di macchia mediterranea, per diventare in alto roccia splendente di marmi, verso Carrara e le Alpi Apuane. A chi ci arriva in questo giorno primaverile, il cuore esulta e l’anima sorride.

 Poi appare la città, grigia e ferro: una contraddizione vivente di alberate, antichi rioni marinari, cantieri, arsenali militari.

La ciminiera dell’OTO Melara sta puntata contro il cielo come un gigantesco, minaccioso cannone, uno di quei pezzi d’artiglieria che questa fabbrica produce da più di un secolo per le guerre nel mondo. Nel mare avanzano le banchine del porto: soltanto una piccola parte è dedicata alla navigazione civile, il resto è arsenale militare, depositi e navi da guerra: 87 ettari di terreno, 13 chilometri di strade, il tutto chiuso da alte mura, con tanto di reticolati e cartelli di divieto d’accesso. In realtà, ampie aree sono in via di dismissione, essendo stati spostati altrove comandi, unità di squadra, centri di addestramento reclute. Dentro le mura una distesa di edifici vuoti e fatiscenti, corazzate storiche definitivamente all’ancora, un museo della guerra navale; fuori, i quartieri del centro storico, cui vengono impediti accesso al mare e respiro.

Murati vivi: così si sentono gli abitanti del quartiere di Marola ed è questo il nome del comitato che rivendica l’abbattimento del muro e il diritto alla fruizione pubblica degli spazi: “il diritto della collettività di tornare al proprio mare”, ci dicono alcuni militanti del Comitato. Impresa difficile, visti gli appetiti speculativi che insistono sull’area.

Area maledetta, quella dell’arsenale, non solo per l’impatto paesaggistico e per le servitù militari, ma per i rifiuti tossici da sempre smaltiti illegalmente (con la copertura militare e giocando sul divieto di accesso a controlli civili) in discariche mai bonificate.

Amianto, uranio impoverito, Pcb, il tutto accatastato in grandi cumuli di rottame o stoccato in lunghe file di bidoni. Senza contare il materiale sepolto: una micidiale miscela che ha inquinato anche le acque sotterranee.

Ma non si tratta solo di nocive eredità del passato: poco più di un mese fa, nella notte tra il 3 e il 4 marzo, attraccò alle banchine dell’arsenale una “nave dei veleni” che, nella disinformazione più totale imbarcò amianto e uranio. Ignote provenienza e destinazione, ignota la quantità di materiale trasportato, nessuna misura di sicurezza: lo denunciano ancora i Murati vivi: “Il concetto di sicurezza inverificabile, segreto e calato dall’alto fu già della Marina Militare con un piano d’emergenza che prevedeva poco più che una serie di infantili nomi in codice da dare agli abitanti morti (“falci”) o contaminati (“fulmini”), in caso di incidente nucleare di un sottomarino straniero (“mare lucente”)”. Raccontiamo loro dei treni di scorie nucleari che, in modo altrettanto anonimo, percorrono periodicamente la Valle di Susa: davanti all’arroganza del potere, tutto il mondo è paese.

 In quello che i nostri accompagnatori chiamano tour degli orrori c’è un’altra discarica, quella di Pitelli, dal nome della frazione presso cui sorge. Devasta e inquina dalla fine degli anni ‘70. Calando dall’alto, a strapiombo sul mare, è una cancrena che ha deviato il corso di un torrente e si allarga a corrodere il corpo vivo della terra. Ai suoi margini un cimitero, boschi che aspettano le ruspe. Nelle sue viscere sono stati interrati negli anni ogni sorta di rifiuti industriali e militari, dai fitofarmaci, alle polveri di Severo, ai pesticidi della Union Carbide, senza contare le partite di materiale misterioso, conferito di notte, camuffandolo sotto strati di ghiaia. Veleni che hanno inquinato le falde acquifere, ucciso operai, fruttato miliardi al partito trasversale degli affari il quale, grazie a minacce e mazzette, ha potuto contare su silenzi e complicità. In questa tomba sono finite per anni denunce, testimonianze, indagini.. L’ultimo processo è ancora in atto, l’unico che non si sia concluso con l’archiviazione.

 Ma non è tutto. Sulla strada del ritorno, ecco ergersi la centrale Enel a carbone, un mostro di impatto ambientale e di inquinamento, dedicata ad Eugenio Montale. Mi chiedo che cosa direbbe il cantore del“girasole impazzito di luce” se vedesse il proprio nome campeggiare a lettere cubitali in fronte a questo dispensatore di energia sporca e polveri sottili. Forse proverebbe più che mai l’alienazione dell’ “incappato di corteo” tra “visi smunti, mani scarne,cavalli in fila, ruote stridule: vite no: vegetazioni dell’altro mare che sovrasta i flutti”.

 Ambiente devastato e lavoro che uccide: ecco i temi su cui si accende il dibattito, nel pomeriggio, con Stefano Sarti, a Sarzana. Altre vicende raccontate, altre denunce, nuove speranze. In sala c’è anche un’amica, che avevamo conosciuto a fine anni ’80, nella lotta contro i megaelettrodotti che si preparavano ad ingabbiare con cavi e tralicci tutta la penisola, lungo i corridoi di traffico tanto cari all’Europa di Maastricht.

Accanto alle proposte si fanno strada i ricordi: la nascita del Coordinamento Nazionale dei Comitati contro i campi elettromagnetici; gli incontri a Mantova, Bologna; il convegno in Valle di Susa, a Bussoleno: tappe di una lotta popolare che continua.

 Il pomeriggio si conclude nell’entroterra, ad Ortonovo, presso l’Officina rossa.

Siamo ai confini con Carrara, terra di operai e cavatori, dove il rosso non è solo un colore, ma una fede e un impegno.

E Resistenza non è una metafora, ma un messaggio più che mai attuale perché i giovani ribelli che su queste colline lottarono contro fascisti e padroni, “non soltanto sono radici sotto pietre macchiate di sangue, ma le loro bocche mordono ancora esplosivo e vanno all’attacco come oceani di ferro e ancora i loro pugni levati smentiscono la morte”.(Pablo Neruda).

Dopo l’assemblea viene preparata una merenda, nello spazio retrostante il circolo, un po’ orto e un po’ area ricreativa: vino schietto, pecorino e fave novelle, di questi terreni benedetti dall’acqua e dal sole.

 Mentre il giorno dolcemente muore, ridiscendiamo in città per l’ultimo incontro, al salone Allende. Sala affollata. Coordina una giornalista, donna gentile e acuta, che riesce a distaccarsi dal solito rituale di botta e risposta, a fare emergere quanto in una campagna elettorale non sembra così importante, ma e la tua vita, la tua storia, sei tu , nel bene e nel male..

 A tarda notte torniamo verso l’albergo lungo i viali e le vie del centro storico.

Salutiamo i compagni che ci hanno fatto da guida per tutta la giornata: Massimo, il generoso avvocato degli oppressi; Jacopo, il giovane militante; Andrea, il poeta: persone da non dimenticare; e ancora il “postino rosso”, che portò lettere per tutta la vita ed ora continua imperterrito a portar volantini, in sella al suo vespino, lucidissimo, informato, combattivo; ed altri, volti e voci di donne e uomini, giovani e anziani, studenti, operai, pensionati..

 La strada è fiancheggiata da piante d’arancio su cui convivono i frutti dell’inverno e i fiori della primavera. La brezza di mare porta alla mia finestra il profumo delle zagare, un aroma ipnotico e struggente, che mi prende per mano e mi conduce oltre la notte.