“Ora le nevi inerti sopra i monti
e le squallide pioggie e le lunghe ire
del rovaio che a notte urta le porte
e i brevi dì che paiono tramonti infiniti”
La lirica di Pascoli mi martella in testa, in questa sera di strade deserte, battute dal vento.
Se ne sono andate anche le bancarelle del magro mercatino domenicale dell’usato.
Sul muro di fronte alla mia finestra mulinano ombre impazzite di bandiere. Sullo sfondo, montagne coperte di neve precipitano nel buio.
Sono perfettamente sola, di nuovo lontana da casa.
Nel vuoto irrompono le immagini di ieri, una giornata che sembra lontana secoli.
La perquisizione della mia casa, da parte dei poliziotti che mi cercano dal sottotetto alla cantina senza trovarmi, e si spostano in Credenza per prelevarmi forzatamente e portarmi in tribunale al processo per direttissima legato alla mia evasione. La corsa sull’autostrada attraverso la Valle che sciorina tutti i colori dell’autunno. Poi una Torino di palazzi tristi, di lunghi viali già coperti di foglie cadute, subito grigia poltiglia.
Le auto della digos procedono a sirene spiegate, irrompono prepotentemente tra le code di auto ferme ai semafori. Ai lati, i passanti camminano indifferenti, assorti nei loro guai.
Per un breve tratto si affianca un’ambulanza,anch’essa con sirena e lampeggianti: mi chiedo chi ci sarà oltre quei vetri opachi, forse una vita che nasce o una storia che muore, in ogni caso lo spaccato di un’esistenza senza finzioni.
Invece è totalmente assurdo il mondo nel quale sono incappata: le frasi di cortesia da parte degli agenti che pure poco prima mi hanno costretta a seguirli; la blindatura del tribunale a cui accediamo attraverso un’entrata secondaria, l’aula dove vengo introdotta sotto consistente scorta. A un certo punto pare vogliano mettermi nella gabbia degli imputati, ma poi vince l’opposizione dei miei avvocati.
Il dibattimento fila via veloce, nel clima prefestivo del sabato mattina: mi sembra di essere finita sul palcoscenico di un’assurda tragicommedia recitata da automi solo apparentemente umani. Ma è ben reale e mi intenerisce il gruppetto di donne e uomini NO TAV comparsi nel settore del pubblico; é dolce e rassicurante l’abbraccio che ci scambiamo in un momento di intervallo, sorprendente la comparsa della scodinzolante cagnolina Olivia venuta a testimoniare l’universalità della nostra lotta.
Entra la corte; in attesa del dibattimento che si terrà il 23 novembre e della sentenza, conferma i domiciliari. Penso a Giuliano e Luca, che hanno seguito la mia stessa sorte, ma dopo due mesi di carcere.
Dopo una sosta in questura, ritorno coatto a casa.
Mi aspettano gli abbracci di compagne e compagni, le feste delle mie bestiole. Respiro quella che fu la mia quotidianità; salgo tra i miei libri, nella quieta stanzetta sopra i tetti. Sugli scaffali si accumula la polvere di un mese e mezzo, ma ogni cosa è pronta a riaccogliermi, a riprendere la vita con me.
Eppure la lotta non può finire, l’evasione deve continuare e continuerà.
Preparo qualcosa da portar via, indumenti pesanti per il cambio di stagione, qualche volume, quaderni. Lascio cibo e medicine per i miei animali (una cara amica li accudisce quotidianamente).
Mentre ripercorro il vialetto che mi porta al cancello, i tigli mi salutano con una nevicata di foglie gialle. Ho la sensazione di mordere il granito, ma so che non è il caso di disperare né di piangersi addosso.
Mi aiuta ricordare le parole di una canzone di Guccini che narra la dura storia di un emigrante:
“Probabilmente uscì chiudendo dietro a sé la porta verde,
qualcuno si era alzato a preparargli in fretta un caffè d’orzo.
Non so se si girò, non era il tipo d’uomo che si perde
in nostalgie da ricchi e andò per la su a strada senza sforzo
Quando l’ho conosciuto, o inizio a ricordarlo, era già vecchio”.
Mi sento nel giusto, non sono sola. Ora posso ripartire.