Dopo le malinconiche giornate di pioggia, oggi è ricomparso l’autunno in tutto il suo splendore, quasi un dono di struggente bellezza prima dell’addio: dietro le antiche mura si affaccia un cielo terso che sa di primavera, scintillano montagne di roccia grigia con bagliori di metallo e, più in basso, squilla il rosso dei ciliegi selvatici, il giallo dei larici.
La prospettiva manca, interrotta dai tetti d’ardesia che circondano la mia attuale dimora , ma immagino le pendici di castagni e roverella giù giù fino alle frazioni e poi, più in basso, la mia casa, con i festoni di vite vergine che invadono la facciata, i cedri ed i due tigli quasi centenari (ai loro piedi comincia ad infittirsi il tappeto di foglie cadute).
Dietro casa, il prato verde e ruggine marezzato dal viola e dal rosa delle settembrine, dove pascolano tranquillamente l’asinella Dorothy, i capretti Yuri e Theo, la capra Stella dalle lunghe corna di stambecco. Al cancello, Argo accorre ad ogni voce, al più piccolo rumore; At si affaccia al balcone; le micie e il piccolo Tito occhieggiano dalle cataste di legna o sonnecchiano nel tepore di questo dolcissimo ottobre; Alì, trascinandosi appresso l’ala spezzata, becchetta nella grande voliera, Si stanno abituando alla mia assenza, ma, quando tornerò, sarà festa grande.
Anche la condizione d’evasa è desiderabile, non fa male, quando si è forti di buone ragioni e si hanno cose da amare e da ricordare.