Genova 2025. Carlo é vivo e lotta insieme a noi.

Genova ci ha accolti con la mole di una nave da crociera così grande da sottrarre ogni vista di mare: decine di piani, migliaia di finestrelle che, a vederle, danno l’angoscia e non fanno certo pensare all’avventura del viaggio, ma allo stress del vivere compressi, intrappolati nell’anonimato della folla.

Ma piazza Alimonda è dolce e fraterna in questo pomeriggio che ogni anno si ripete sul filo del ricordo. Non abbiamo dimenticato Carlo e lo rivediamo mentre, in queste stesse ore di ventiquattro anni fa, insieme a tanti altri giovani come lui, percorre queste strade portandosi addosso null’altro che i suoi vent’anni, la canottiera bianca, il rotolo di scotch infilato al braccio e lo sguardo azzurro, sincero di ragazzo.

A piazza Alimonda Carlo fu ammazzato, colpito a morte dalle forze dell’ordine costituito, il braccio armato del G8 che in quei giorni, per le vie di Genova, celebrò i riti della globalizzazione capitalistica in un bagno di sangue di cui la morte di Carlo fu il tragico culmine.

Oggi qui a ricordare ci ritroviamo in tanti, i vecchi compagni e i giovani venuti dopo sulla via delle lotte. E ancora sventolano le bandiere e gli striscioni di allora a denunciare il presente del sistema di sempre, guerrafondaio e assassino. “La loro pace e la loro guerra sono come il vento e la tempesta: la loro guerra uccide quel che alla loro pace è sopravvissuto”: la lirica di Brecht mi risuona in testa mentre ascolto gli interventi dal palco che denunciano come la pace armata di allora sia diventata la guerra aperta di oggi: la loro pace, devastando diritti, senso di solidarietà sociale e ambientale, cultura dell’accoglienza, internazionalismo degli sfruttati, ha aperto la strada agli orrori della loro guerra : la guerra imperiale e coloniale che dura da sempre e che ora si fa pulizia etnica contro il popolo Palestinese, genocidio a suon di bombe e di morte per fame, praticato dallo stato di Israele con il sostegno del capitalismo mondiale e dei governi ad esso asserviti.

In piazza Alimonda risuonano canzoni e parole e non c’è ambiguità né rassegnazione. Rabbia e festa stanno insieme come allora, in quella Genova 2001, quando le barriere delle “zone rosse”, innalzate a protezione dei potenti, nulla potevano contro il dilagare della protesta. Ed al divieto di stendere panni da balcone a balcone, emesso dalla questura in nome di un presunto decoro urbano, la città rispondeva con l’l’ironico, allegro sventolìo di maglie, mutande, camiciole, calzini stesi in lunghe file ad asciugare lungo tutte le vie del centro storico.

Oggi sono tanti i sorrisi, gli abbracci, grande la gioia del ritrovarsi, ma il cuore della giornata è lei, la mamma di Carlo, la dolce Haidi che siede modestamente dietro il palco e, nel tempo, ha saputo fare del dolore un talismano contro la rassegnazione, una ragione forte di testimonianza e di resistenza collettiva.

Quando ripartiamo verso la Valle è ormai sera, una sera luminosa che penetra nei caruggi accarezzando muri scrostati e affreschi signorili. In quest’ora Genova, deposta la concretezza mercantile, si riveste di malinconia.

Le navi da crociera hanno lasciato il porto e, dalla soprelevata che, come una spina dorsale, attraversa tutta la città, riusciamo a vedere in lontananza uno spicchio di mare.

Si parte e si torna insieme.

25 – 26 – 27 luglio 2025 Festival Alta Felicità

In questi giorni a percorrere le vie della Valle verso Venaus, per condividere l’Alta Felicità di resistere, c’è il mondo.

Si arriva con tutti i mezzi: auto, qualche camper, ma soprattutto treno. Dalla stazione di Susa sono disponibili navette, troppo poche per la folla degli arrivi. E allora si va a piedi, zaino e tenda in spalla, una lunga fila di camminanti sotto il sole a picco, la fatica compensata dalla prospettiva di vivere un’esperienza in cui riconoscersi, sentire come realizzabile il proprio bisogno di stare bene, insieme.

Quest’ anno le presenze sono ancor più numerose rispetto alle edizioni precedenti. Davanti a chi arriva si allarga un mare multicolore di tende sui prati che, nel 2005, conobbero la resistenza contro l’occupazione militare e, l’8 dicembre, furono riconquistati da una marea di popolo: donne, uomini, giovani, anziani saliti in Val Cenischia a rompere i cordoni della polizia e le recinzioni del cantiere messo in piedi in fretta e furia dopo lo sgombero a mano armata del presidio resistente.

In quei giorni c’era la neve. I prati distese gelate, l’aria uno sfarfallio di fiocchi, le notti punteggiate di fuochi.

Oggi la luce incandescente dei giorni di fine luglio. Sui prati appena falciati una tendopoli felice. Le notti sfocate dalle luci psichedeliche dei concerti.

Ma ora come allora la consapevolezza che è festa anche il conflitto, se si è dalla parte degli oppressi che rifiutano la resa e si organizzano per difendersi.

E, il sabato pomeriggio, sono la festa e la lotta ad animare le tre manifestazioni che si dirigono verso la Clarea, San Didero, Susa, i luoghi dove è in atto la devastazione.

Giovani, ragazze, ragazzi, bambini con i genitori, e insieme a loro, chi in questa lotta ha visto scorrere i suoi anni migliori e ne porta il ricordo come un talismano che lo spinge ad esserci, a lottare ancora.

Si cammina verso Susa in allegro disordine, sulla via che porta all’autoporto, nella piana popolata dalle frazioni Traduerurivi e San Giuliano, condannata a morte dal progetto TAV.

Qui le grandi male opere hanno già lasciato il segno: quarant’anni di autostrada, prima i lavori, poi il passaggio di migliaia d TIR giornalieri nella valle ridotta a corridoio di traffico, dove tutto passa e nulla rimane.

Fino agli anni ‘80 questi erano luoghi di orti, vigneti, piccole cascine, qualche villetta con giardino.

Poi vennero il cemento, l’asfalto dei piazzali, il labirinto degli svincoli autostradali e “Annibale 2000”, la mole plumbea e costosissima che, nella propaganda mendace della lobby proponente l’opera, doveva essere il “fiore all’occhiello” della Valle – albergo di lusso, museo d’arte , vetrina delle produzioni locali, prestigioso centro congressi – ed è rimasta un rudere semideserto, inutile e costosissimo.

Ora qui è prevista l’uscita del tunnel TAV transfrontaliero, mentre quella che fu la “pista guida sicura” per l’istruzione alla guida dei veicoli pesanti diventerà il deposito del materiale di scavo: montagne di detriti contenenti amianto, uranio, polveri velenose accumulate a cielo aperto in una zona costantemente spazzata dai venti.

Camminiamo fra due mondi: quel che e rimasto del passato -la fascia di pascoli protetti dai boschi che scendono lungo le pendici montane, qualche mandria, piccoli vivai – e il nuovo “cantiere d’interesse strategico nazionale”, recintato dai betafence irti di filo spinato, l’affilata concertina di fabbricazione israeliana che diventa una trappola mortale per chi vi finisce impigliato.

Ma chi lotta per amore non conosce barriere invalicabili.

Nella luce del pomeriggio che si fa sera, dopo un lancio di fuochi d’artificio, viene aperta una breccia e si entra nel fortino che sembrava inaccessibile.

A praticare il gioioso sabotaggio ci siamo ancora, ci siamo tutti, ciascuno secondo le sue possibilità.

La fresca brezza che annuncia la fine del giorno ci accompagna sulla via del ritorno. Come sempre, si parte e si torna insieme.

Torino, 23 giugno 2025

Sono venti di guerra quelli che spirano a rendere più intollerabile l’afa di questo tardo pomeriggio di fine giugno. Venti invisibili su una città inconsapevole.
Sono scesa a Torino per partecipare alla manifestazione contro guerra e riarmo convocata in tutto il Paese dal Coordinamento Disarmiamoli.
In piazza Carignano, accanto alle bandiere dei sindacati di base, delle formazioni studentesche e dei partiti rivoluzionari, sventolano le bandiere della Palestina.
Pochi gli anziani ( in gran parte donne, le compagne di sempre), ma molti i giovani, ragazze e ragazzi: ne sono lieta e commossa, perché sono loro l’istanza di liberazione che non muore, la garanzia che, nonostante gli imbonitori di regime, lo spirito critico e l’amore per la verità possono essere ancora l’antidoto contro la resa ai luoghi comuni e all’interiorizzazione della sconfitta.
Gli interventi al microfono si susseguono, chiari, semplici, senza reticenze né mediazioni, sotto l’occhio inquisitore e l’orecchio teso della digos che per l’occasione ha sostituito le truppe in assetto antisommossa.
La manifestazione prosegue con un corteo diretto alla sede RAI.
Percorriamo le vie del centro. Dalla folla dello struscio serale, qualche isolato applauso e tanta indifferenza. Ad un incrocio, tra i passanti in sosta, noto un padre e una bambina, piccolissima, su un passeggino: mentre il padre guarda con un’espressione di infastidita indifferenza, la bambina ride allegra e batte le manine al ritmo degli slogan….e quel suo ridere felice è come una fresca brezza che irrompe nell’aria morta della città e ridà agio al cammino.
Alla Rai troviamo i cancelli chiusi e, al di là dei cancelli, i blindati della polizia: anche questa volta i telegiornali della sera risponderanno col silenzio.
Al ritorno verso Porta Nuova dove mi aspetta il treno per il rientro in Valle, ripercorro le vie del centro. Via Po, piazza Carlo Alberto, via Lagrange….
La città serale si è trasformata in una grande trattoria all’aperto. Piazze e portici invasi da tavoli imbanditi: pizze, piatti di pesce, grigliate e insalatone su cui si affannano a suon di forchetta e coltello coppie, comitive, qualche singolo inglobato nel contesto.
Relegati a debita distanza, sparuti mendicanti chiedono oboli che faticano ad arrivare, un ragazzino offre per due euro braccialetti di vetro colorato. In qualche anfratto di portico aspettano le povere cose che diventeranno giaciglio notturno per i senzatetto.
Mentre mi affretto con affanno nell’afa che non vuole cedere alla brezza serale, mi sento invadere da un senso di totale precarietà,dall’insensatezza di una città di cartapesta che non riesce ad esorcizzare fino in fondo la realtà. E la realtà, contro cui invano si alzano i brindisi delle tavolate e le vetrine sfoggiano la leggerezza multicolore degli abiti estivi, ha il volto di bambini, donne, uomini, tutto un popolo che muore di fame e di bombe mentre i governi del nostro mondo votano l’aumento delle sperse militari.
Intorno si accendono le luci, si alzano le note di un’orchestrina.
Nei saloni del Titanic che affonda le coppie continuano a danzare.